eleggiamocelo noi. Non è più tabù

Categoria: Firme

Da Pacciardi a Craxi, il presidenzialismo non è di destra

ma ha molti nemici fra i gruppettari (e i republicones)

Il grande tabù dell’antico “arco costituzionale”, la modifica della forma di governo in senso presidenziale, si ripropone oggi con una forza nuova, derivata dall’evidente inceppamento dei meccanismi istituzionali vigenti. Anche in passato l’ipotesi di un assetto presidenziale è stata presente, sostenuta da forti individualità poi isolate, da Piero Calamandrei all’azionista Leo Valiani al leader repubblicano Randolfo Pacciardi, cui non sono bastate le benemerenze ottenute nell’eroica partecipazione alla lotta antifascista in Spagna e in Italia per sottrarsi all’accusa di sovversione antidemocratica proprio per la sua convinzione presidenzialista.

E’ un fatto che, quale che fosse la loro origine politica, i sostenitori del presidenzialismo in Italia hanno sempre finito per essere assimilati a una concezione di destra, a causa della sostanziale convergenza di comunisti e democristiani nella difesa assoluta dell’impianto istituzionale parlamentare. Questa scelta, che corrispondeva all’esigenza di mantenere un rapporto tra partiti le cui funzioni di governo e di opposizione si erano cristallizzate anche per effetto delle influenze internazionali, fu peraltro in molti casi presentata come una forma di “indipendenza” dai rispettivi paesi guida, Stati Uniti e Unione sovietica, in cui vigevano regimi presidenziali o autocratici. Quando poi, col compromesso storico e con il suo fallimento dopo l’assassinio brigatista di Aldo Moro, lo schema fisso delle funzioni politiche gestito dalla dialettica parlamentare fu superato nei fatti, sembrava esistessero le condizioni per una “grande riforma”, di cui si fece promotore Bettino Craxi, contro il quale però ben presto si chiuse la tenaglia del patto costituzionale, che successivamente portò all’isolamento dello stesso presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che inviò inutilmente al Parlamento un messaggio riformista, che il presidente del Consiglio di allora, Giulio Andreotti, si rifiutò persino di controfirmare. E’ di una certa utilità risalire a questi episodi lontani nel tempo per comprendere la profondità della convinzione antipresidenzialista, confinata per decenni prima nell’estrema destra e poi nel centrodestra, ora che anche la sinistra apre una discussione difficile ma finalmente autentica su questo tema.

Il primo ostacolo da superare è la sindrome della fortezza assediata, l’immagine di una Repubblica la cui Costituzione (che non funziona ma che viene cantata dai vari Benigni come “la più bella del mondo”) rappresenta il presidio dei valori “antropologicamente” superiori, che quindi va difesa così com’è per non cedere alla “subcultura” berlusconiana. Contro questo diffuso pregiudizio comincia a farsi strada un principio di realtà, la coscienza dello sfilacciamento di istituzioni che perdono progressivamente prestigio per la loro inefficienza nei confronti di una cittadinanza resa più esigente dalle difficoltà economiche, che hanno retto solo grazie al ruolo politico del Quirinale, dove peraltro è stato impossibile realizzare un ricambio fisiologico. Affidare all’elettorato la scelta del presidente della Repubblica, al quale già spetta di fatto una responsabilità politica diretta (che la Costituzione vigente nega), pare a molti, anche nel Pd, l’unico modo per uscire dal pericoloso blocco del sistema decisionale che si è determinato. Naturalmente anche i favorevoli alla riforma presidenziale nel Pd, anzi soprattutto loro, cercheranno di dare a questa scelta un carattere “antiberlusconiano”, come passaporto per forzare il blocco conservatore. Sono manovre già viste, che indussero Craxi, quasi trent’anni fa, a promettere, inutilmente, che avrebbe rinunciato a presentarsi candidato se si fosse accettata l’idea della riforma presidenziale con l’elezione diretta del responsabile dell’esecutivo.

Il punto discriminante, forse, non è tanto la paura di una conquista della presidenza elettiva da parte di Berlusconi, ma la preoccupazione opposta, quella della gestione di una vittoria presidenziale del centrosinistra che imporrebbe una certa disciplina gerarchica a quel campo tendenzialmente anarchico. Nel parlamentarismo tutti i gruppi e i gruppetti, le corazzate editoriali come le piccole consorterie localistiche, finiscono col trovare il modo di pesare o di credere di pesare. Era così nella sinistra francese prima della vittoria presidenziale di François Mitterrand, ma poi è cambiato tutto. Una sinistra di governo deve avere necessariamente quei punti di riferimento, Tony Blair e Mitterrand, anche dal punto di vista della compattezza imposta anche dall’alto all’organizzazione politica dopo una battaglia interna. La “scorciatoia” che preoccupa il direttore di Repubblica è quella che impone, attraverso il sostegno a un candidato espresso apertamente nella discussione pubblica, la selezione tra opzioni e un impegno permanente per un periodo abbastanza prolungato. Sono meglio della “scorciatoia” decisionista sottoposta al giudizio popolare le lungaggini inconcludenti di un dibattito che sembra un dopocinema degli anni Sessanta? Difficile sostenerlo, specialmente dopo la severa requisitoria di Giorgio Napolitano contro l’elusione dei problemi, ma se lo si può fare è anche perché in settori non secondari di sinistra resiste una sostanziale preferenza per una condizione di opposizione retorica rispetto all’assunzione di responsabilità di governo che implicano l’abbandono delle antiche pulsioni antagonistiche. Se si guarda a come si vanno collocando le forze nel Pd sul tema del presidenzialismo si vede una tendenza a stabilire il punto di discrimine tra i sostenitori della vocazione maggioritaria e i sostenitori del “melange” sinistrorso che concede funzioni di traino a posizioni antagonistiche, naturalmente con l’idea dei neutralizzarne gli effetti attraverso la dialettica parlamentare.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Sergio Soave