Storia processo Gen. Mori, Ingroia e

Categoria: Firme

come nacque l’inquisitio generalis

Il giurista Fiandaca dice che il processo sulla “tattativa” è abnorme. Pellegrino attribuisce la giustizia sommaria all’anomalia del Cav. Il generale Mori fa esplodere la contraddizione dell’antimafia

Quando attraverso il Foglio viene sparata nell’aria mefitica italiana una verità o, se vogliamo essere più sobri, una interpretazione limpida delle cose, contestabile ma controcorrente, la procedura della corporazione giornalistica e del mondo che conta, civile e politico, è quella dell’insabbiamento nel silenzio. Questo dipende anche dal fatto che la natura di questo giornale è raziocinante, e nonostante un certo gusto per il “gesto”, il suo percorso è di battaglia delle idee, non di vetrina della comunicazione truce e banalizzante. Però, come è avvenuto con la ripubblicazione in ben sette pagine di quotidiano del rigoroso saggio del professor Giovanni Fiandaca, sabato scorso, contro la logica giudiziaria e il contesto ideologico, mediatico e politico del processone sulla cosiddetta “trattativa stato-mafia”, il messaggio passa, e passa alla grande nella coscienza nazionale delle élite, bucando il silenzio precostituito d’ordinanza.

Giovanni Pellegrino ha riletto Fiandaca su Ingroia, detto per semplificare, alla luce della pubblicazione per un più vasto pubblico di quella tremenda ed equilibrata requisitoria contro certi metodi d’indagine e processuali. Lo ha fatto scrivendo un lungo e impegnativo articolo sull’Unità, giornale che esprime un certo pluralismo e che ha ospitato sia le opinioni del pm palermitano sia quelle dei suoi critici, che in gran numero, come nel caso di Fiandaca, si collocano in un’area culturale di sinistra democratica. La faccenda è interessante perché ci consente di dire alcune cose, anche alla luce dell’anticipazione, che potete leggere qui sotto, di alcuni passaggi della dichiarazione spontanea che il generale Mario Mori, l’uomo che nel 1993 arrestò Salvatore Riina e diede il colpo decisivo alla mafia, sta per rendere nel processo intentatogli per l’accusa della mancata cattura, nel 1995, di Bernardo Provenzano (parlerà domani in aula). Nel processo gli è stato addebitato come aggravante il reato che discende dallo stesso articolo del codice, il 338, con il quale la medesima procura di Palermo e i medesimi pm hanno impacchettato politici, carabinieri e mafiosi in un unico processone-monstre che dovrebbe dimostrare, per la testimonianza di un famoso pataccaro come il figlio di Don Vito Ciancimino, la collusione generale dello stato con le cosche. Dimostrazione da farsi, va da sé, in un clima di giustizia sommaria e politica alimentato dai circuiti che nella anticipazione qui sotto sono descritti con nomi e cognomi. Un partito dell’antimafia urlatrice e chiodata di cui si è occupato con serenità e severità anche il professor Fiandaca nella sua ampia analisi di un dibattimento che considera “abnorme”.

Il fatto è che il senatore Pellegrino, già massimo esperto del partito della sinistra italiana in materia giudiziaria, e militante di mille battaglie, comprese quelle garantiste, dice la stessa cosa che ora apre la imminente dichiarazione spontanea del generale Mori. Nel 1992 Milano (inchieste sulla corruzione) fece staffetta con Palermo (inchieste sulla mafia e in particolare i processi ad Andreotti) nel quadro di un disegno che aveva una sua razionalità politica, se non una univoca legittimazione giudiziaria. Caduto il Muro di Berlino, finita la Guerra fredda, una Repubblica dei partiti infestata da fenomeni corruttivi fu messa fuorilegge attraverso un repulisti generale in azione di supplenza politica e civile della magistratura penale. Ma dopo gli anni d’oro o di piombo delle retate e delle accuse più sulfuree avrebbe, dice Pellegrino, dovuto ristabilirsi l’equilibrio. Ciò che non è accaduto perché la vittoria di Berlusconi nel 1994 portò nel sistema un’altra anomalia, l’imprenditore in conflitto di interessi fattosi politico e leader carismatico-personale, con un effetto di bipolarizzazione civile devastante, che ha paralizzato la possibilità di ristabilire l’equilibrio. E finché ci sarà Berlusconi in campo, conclude Pellegrino, le cose non cambieranno.

La questione è di forte attualità, anche politica, perché investe il clima o la retorica della pacificazione, come dicono a Repubblica. Ma ha anche, la questione, un risvolto di principio. E’ vero che la strategia di Berlusconi nella sua difesa di sé e della sua identità di rappresentante di una quota della sovranità popolare è passata, per esempio, per le leggi ad personam e ha generato altri squilibri. Ma, come ricordò un altro grande giurista, oggi saggio nella lista dei riformatori delle istituzioni, il professor Giuseppe Di Federico, quelle leggi furono la risposta a processi ad personam. E allora tutto si tiene. L’anomalia originaria, la giustizia sommaria e politicamente orientata, è l’origine dei nostri mali.

Vogliamo i generali!

“Sono oggetto di una campagna mediatico-giudiziaria, un’ordalia”

All’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, il movimento di rifiuto e contrasto alla mafia e al suo ambito di riferimento, seguito dei successivi tragici eventi delle stragi del 1992, ha avuto un impulso più forte e convinto.

Non è certo questa la sede per fare delle analisi, preme qui sottolineare solamente come, in questo ambito, sia venuta costituendosi e conformandosi sempre più nettamente una specifica corrente di pensiero, precisamente caratterizzata sotto l’aspetto della connotazione politica, che ha fatto della lotta alla mafia una vera priorità per taluni, anzi, un’attività con i suoi ritorni anche di natura concreta.

Questo approccio mira a fare prevalere una ben precisa interpretazione su origini, moventi, sviluppi e responsabilità dei fatti più eclatanti dell’attività mafiosa degli ultimi venti anni e presuppone precise connivenze e puntuali favoreggiamenti in una parte delle istituzioni dello Stato.

Questo movimento d’opinione cerca tuttora condivisione e visibilità con una serie di manifestazioni, convegni, studi, pubblicazioni, interventi sul Web, nonché attraverso il mezzo televisivo e le altre forme mediatiche.

Approccio questo, basato sull’enunciazione di ipotesi e teorie suggestive, prive peraltro di puntuali supporti dimostrativi ma che, sostenuto insistentemente nel tempo, diventa per ciò stesso un portato assiomatico, in particolare per chi, delle vicende, ha una conoscenza superficiale e si ferma alle prime e più immediate evidenze. Alle mie odierne dichiarazioni accludo una serie di report, suddivisi per anni, ricavati dal Web con precisi riferimenti circa la loro acquisizione e origine, che stanno a descrivere l’intensa attività di quel composito movimento di opinione cui ho accennato, e che, come si constaterà, è costituito da personalità diversificate, provenienti:  dal mondo politico, quali: Sonia Alfano e Giuseppe Lumia che si avvalgono del sostegno, di volta in volta, di altri colleghi tra i quali più assidui: Antonio Di Pietro, Angela Napoli, Fabio Granata, Luigi Li Gotti, Leoluca Orlando e Rosario Crocetta; dal mondo delle professioni, quali: Fabio Repici, Gioacchino Genchi, Marco Travaglio che possono contare sul sostegno saltuario di altri, quali: Francesco Pancho Pardi, Concita De Gregorio, Sandra Amurri, Saverio Lodato, don Andrea Gallo, Giuseppe Lo Bianco, per citare alcuni tra i più assidui. Tutti costoro, con altri che non menziono per brevità, sono sostenuti da una serie di associazioni quali: Agende Rosse, Antimafia 2000, La Rete, Associazione Libera, Associazione Nazionale delle Vittime della Mafia, Quinto Potere, Libera Cittadinanza, Associazione Penso Libero e altre ancora. Alle iniziative di coloro che ho sopra citato ha aderito, più o meno saltuariamente, anche un certo numero di magistrati.

L’attività d’informazione e denuncia, in una società aperta, è giustamente consentita a tutti; ed è anche lecito che a queste iniziative possano aderire dei magistrati. Diventa a mio avviso meno normale che si ponga come protagonista di queste manifestazioni anche chi, mentre porta avanti l’azione penale in precisi contesti giudiziari, contemporaneamente partecipa in modo attivo a queste iniziative, esplicitando i propri orientamenti che non possono non apparire come conseguenti da acquisizioni processuali già raggiunte, anche se così non è.

Lo scopo che comunque si ottiene è quello di indirizzare surrettiziamente la pubblica opinione, con modalità che già agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, il senatore Gerardo Chiaromonte, che, prima di essere un importante esponente del Partito comunista è stato un uomo delle istituzioni, aveva individuato e stigmatizzato, nel suo libro “I miei anni all’Antimafia”, come, testuale: “Una giurisdizione parallela di tipo politico-mediatico”. E questo modo di procedere non mi sembra possa rientrare in una corretta interpretazione di deontologia giudiziaria. 

Cito a riguardo un brano dell’intervento tenuto dal prof. Luigi Ferrajoli al XIX Congresso di Magistratura democratica del gennaio di quest’anno, quando, riferendosi all’atteggiamento da tenere, da parte del magistrato, riguardo ai processi di cui è titolare, ha sostenuto testualmente: “Soprattutto è inammissibile – e dovrebbe essere causa di astensione e ricusazione – che i magistrati parlino in pubblico, e meno che mai in televisione, dei processi loro affidati. E invece abbiamo assistito in questi mesi a trasmissioni televisive desolanti, nelle quali dei pubblici ministeri parlavano dei processi da loro stessi istruiti, sostenevano le loro accuse, lamentavano gli ostacoli o il mancato sostegno politico alle loro indagini, addirittura discutevano e polemizzavano con un loro imputato e, peggio ancora, formulavano pesanti insinuazioni senza contraddittorio”.

Questa mia considerazione si riferisce quindi, in modo particolare, a due pubblici ministeri di questo processo, il dott. Antonio Ingroia e il dott. Antonino Di Matteo, ma non solo a loro, perché scorrendo il report che ho citato e allegato si troveranno altri magistrati dei distretti siciliani.

Ma oltre all’interpretazione sociologica del prof. Ferrajoli, vorrei segnalare quella tecnica, proposta da un giurista altamente qualificato e certamente non sindacabile sotto il profilo ideologico, il prof. Giovanni Fiandaca. Egli, a proposito dell’art. 338 CP, introdotto come aggravante anche in questo processo e che sostanzia l’ipotesi giuridica del processo per la così detta trattativa Stato-mafia, nel definire quest’ultima una “inquisitio generalis” poco ortodossa, se non abnorme, ne evidenzia, con puntuali osservazioni, la scarsa plausibilità come specifica figura di reato e muove critiche all’asserto, sotto il duplice aspetto dell’elemento soggettivo e di quello oggettivo.

Alla luce di quanto sopra descritto, mi sembra anche che debba risultare evidente il motivo, criticato dall’accusa, per cui non ho ritenuto di rispondere alle domande dei pm in quest’aula. Mi è chiaro e rispetto il principio che questi è una parte del processo, e come tale sostiene doverosamente il suo convincimento.

Ora, però, da un ventennio, a partire dalla cattura di Riina Salvatore, fatto che continuo ad attribuire a grande merito dell’Arma dei Carabinieri quale punto di discrimine nella lotta dello Stato a “cosa nostra”, sono oggetto di critiche giudiziariamente non provate e assolutamente infondate. Critiche sostenute, o perlomeno avallate con la loro presenza in ben identificate sedi extragiudiziarie, come dianzi ho evidenziato, anche da rappresentanti dell’accusa in questo processo. Ritengo, quindi, che vi sia da parte loro, nei miei confronti, un pesante pregiudizio concettuale e politico da cui mi posso difendere solamente contestando specificatamente, e di volta in volta, gli elementi addotti a sostegno delle accuse rivoltemi. Anche perché queste accuse non sono state prodotte in un’unica soluzione, all’inizio del dibattimento, ma presentate in tempi successivi, come continuazione ininterrotta della fase istruttoria, in tutto l’arco di durata ormai più che quinquennale, di questo processo.

In base a queste considerazioni, non mi pare che possa essere criticabile la condotta da me adottata come imputato coinvolto in questo e in altra vicenda giudiziaria già in sede dibattimentale e che mi ha visto come indagato prima e imputato poi, per un’ipotesi di reato, che la scienza giuridica specialistica del paese considera quantomeno singolare se non insussistente.

Vengo ora alla disamina delle accuse che mi riguardano con una ulteriore puntualizzazione a cui tengo particolarmente.

Mi riferisco all’accusa di tradimento al giuramento di fedeltà alla Repubblica rivoltomi in quest’aula. A riguardo dico solo che il signor pubblico ministero che la sostiene non ha conoscenze adeguate e quindi sufficiente titolo per esprimere un tale giudizio, perché hanno affermato inequivocabilmente il contrario, e con ben altra cognizione dei fatti, tante prestigiose personalità che nel tempo hanno avuto modo di conoscermi e valutare quindi concretamente il mio operato.

di Mario Mori Generale dell’Arma dei Carabinieri  ed ex comandante del Ros