La verità del generale Mori: 2

"Trattativa coi boss? Fantasie"

L'ex capo del Ros attacca i pm: "Giurisdizione parallela politico-mediatica, toghe  alle manifestazioni d'opinione. E la talpa di Provenzano lavorava con Ingroia..."

Gian Marco Chiocci Mariateresa Conti - Sab, 08/06/2013 - 08:02

La verità del generale Mario Mori è un processo al processo (anche mediatico). L'ex comandante del Ros, alla sbarra col numero due Mario Obinu per favoreggiamento aggravato, in aula a Palermo prende di petto l'inchiesta sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, e di riflesso anche quella sulla trattativa Stato-Mafia.

Il primo affondo è riservato proprio ai pm.

Ingroia e Di Matteo - dice Mori – hanno creato «una giurisdizione parallela «di tipo politico–mediatico» che accredita una realtà di parte. La loro. Di pari passo a teoremi e suggestioni è cresciuto, e cresce, «un movimento d'opinione che cerca condivisione e visibilità» con una serie di iniziative e sponde mediatiche. «Approccio questo, basato sull'enunciazione di ipotesi e teorie suggestive, prive peraltro di puntuali supporti dimostrativi, ma che, sostenuto insistentemente nel tempo, diventa per ciò stesso un portato assiomatico, in particolare per chi, delle vicende, ha una conoscenza superficiale e si ferma alle prime e più immediate evidenze». Di questo «movimento» farebbero vari politici oppure giornalisti, avvocati, consulenti, «tutti sostenuti» da più associazioni antimafia. A queste iniziative, insiste Mori, hanno aderito «alcuni magistrati» (Ingroia e Di Matteo)».

REQUISITORIA IN TV

E qui sta il problema: «Non è normale che si ponga come protagonista di queste manifestazioni anche chi, mentre porta avanti l'azione penale (...) contemporaneamente partecipa in modo attivo a queste iniziative, esplicitando i propri orientamenti che non possono non apparire come conseguenti da acquisizioni processuali già raggiunte, anche se così non è». Lo scopo, osserva l'ex fondatore del Ros, «è quello di indirizzare surrettiziamente la pubblica opinione, con modalità che già agli inizi degli anni novanta del secolo scorso, il senatore comunista Gerardo Chiaromonte (...) aveva individuato e stigmatizzato, nel suo libro I miei anni all'Antimafia, “una giurisdizione parallela di tipo politico-mediatica”. E questo modo di procedere non mi sembra possa rientrare in una corretta interpretazione di deontologia giudiziaria». Mori pesca l'intervento di Luigi Ferrajoli al congresso di Md di quest'anno: «“È inammissibile - e dovrebbe essere causa di astensione e ricusazione - che i magistrati parlino in pubblico, e meno che mai in televisione, dei processi loro affidati”. E invece - continua il carabiniere - abbiamo assistito a trasmissioni tv desolanti, coi pm che parlavano dei processi da loro istruiti, sostenevano le accuse, lamentavano gli ostacoli o il mancato sostegno politico alle indagini, discutevano e polemizzavano con l'imputato e, peggio ancora, formulavano pesanti insinuazioni senza contradditorio».

PAPELLI E PENTITI

Dopo aver contestato punto per punto le accuse del colonnello Michele Riccio sulla mancata cattura di Provenzano, Mori stronca Massimo Ciancimino, figlio di Vito, il sindaco mafioso di Palermo, «autore di un'articolata quanto lacunosa strategia calunniatoria e di depistaggio». Parla per sentito dire e consegna ai pm carte false e, comunque, sospette. Come il papello («un atto anonimo, per di più in fotocopia») o come il contropapello, una raccolta di appunti del padre per il libro Le mafie. Per non parlare dei falsi su De Gennaro che gli son costati le manette. Poi ci sono i pentiti con dichiarazioni a rate: Giovanni Brusca ammette d'aver parlato di Mori dopo aver letto Repubblica, e quando è caduto in contraddizione, non ha avuto remore a dire che «erano venuti i magistrati a chiarire tutto» e che aveva dovuto «mettere i puntini sulle i». Stesso dicasi per Mutolo o per Cattafi.

TALPE D'ORO

Se Provenzano è rimasto latitante non è stato per patti inconfessabili, ma (anche) per le informazioni che gli passavano le talpe. Una delle quali distaccata proprio «presso l'ufficio del dottor Antonio Ingroia». Quanto poi ai contatti con Ciancimino senior il Ros si mosse per «dovere professionale», ma gli incontri vennero comunicati «a Fernanda Contri, Liliana Ferraro, Luciano Violante, Gian Carlo Caselli» e «nessuno se ne lamentò o lo denunciò». Tra bombe e stragi il Ros si muoveva da solo visto che «la Procura di Palermo era quasi all'impotenza operativa» come confermato da molti pm. Altri si tiravano indietro. «Con la scomparsa di Falcone e Borsellino, molti (...) avevano scelto il silenzio e la prudenza» salvo poi ricomparire a problemi risulti sulla scena e riprendere «più a parlare che ad agire, magari sostenuti dal conforto di una robusta scorta».

CRUSCA E DOPPIOPESISMO

Per Mori, la trattativa non ci fu. «Facemmo indagini». E bisogna intendersi sui termini. Perché un carabiniere mica è un «membro dell'Accademia della Crusca», dice «trattativa», ma dice anche «contatto, approccio» ed è «patetico», a posteriori, pretendere letture da puristi della lingua. Mori parla di «doppiopesismo» ricordando il tour in carcere dei parlamentari Sonia Alfano e Giuseppe Lumia con l'invito ai boss a collaborare «alla stregua di un vero e proprio colloquio investigativo, che la legge attribuisce solo alla polizia giudiziaria e alla Dna». Nessun dubbio sulle lodevoli intenzioni dei due politici, nemmeno l'iniziativa del Ros con Ciancimino «può essere ragionevolmente considerata tale, alla luce degli esiti di tutte le indagini che in merito sono state compiute».

LA FARSA DEL 41 BIS

Anche la revoca del carcere duro, noto come 41 bis, nel '93, a circa 300 boss, secondo Mori è stata drammatizzata in chiave trattativa. Il generale ricostruisce le posizioni: quella del Ros, che non voleva ammorbidirlo, e quella di tutti gli altri, politici e non, favorevoli e contrari. «L'attenuazione del regime carcerario non ha sortito alcun effetto sulla cessazione delle stragi di mafia». E la riprova è la gigantesca strage mancata per un incidente tecnico allo stadio Olimpico di Roma a gennaio '93.

BORSELLINO E IL ROS

Altro che accelerazione della strage di via D'Amelio perché Borsellino aveva scoperto l'esistenza della «trattativa». Fu il Ros l'unico ad avvertire Borsellino il 19 giugno '92 di un imminente attentato. Dei carabinieri «Borsellino aveva una particolare considerazione». Lo dimostrano i ripetuti incontri, prima di morire, e l'incarico di fiducia ricevuto: il fascicolo «su mafia e appalti», filone su cui indagava Falcone prima di essere ucciso e che Borsellino aveva ripreso dopo Capaci. «Ci chiese – ricorda Mori – di mantenere il più stretto riserbo sull'incontro e sulle indagini di cui non dovevamo parlare con gli altri magistrati di Palermo». Per la cronaca, quell'inchiesta venne chiusa subito dopo l'uccisione di Borsellino, la richiesta di archiviazione venne «vistata» il 20 luglio del '92, all'indomani della strage di via D'Amelio, e l'archiviazione arrivò il 14 agosto. Borsellino avrebbe dato un incarico così delicato al Ros se sul Ros avesse avuto dei sospetti?

L'ANTIMAFIA DI PROFESSIONE

Chiude Mori. Facile, oggi, «produrre versioni e ricostruzioni avventurose e decontestualizzate». Tanto più «che chi riteneva di servire in quei momenti lo Stato non pensava di doversi precostituire alibi e difese da ipotesi fondate sull'elaborazione di fantasiosi sistemi criminali, pensati a tavolino sulla base esclusiva di un convincimento ideologico, senza il conforto di prove che possano in qualche modo confermarli». Roba da «cultori della letteratura fantasma», non da «professionisti della materia». Il paradosso di questa vicenda è costituito dal fatto che «noi non abbiamo memoria della gran parte degli attuali lottatori antimafia. Non li abbiamo visti perché non c'erano accanto a noi o al fianco di coloro che durante quella tragica stagione hanno davvero combattuto Cosa nostra, alcuni fino a perderci la vita. Rimane l'amara constatazione che forse la vera colpa che non ci viene perdonata da qualcuno sia quella di essere sopravvissuti».

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