dilemma progressista”: Immigrazione di massa o solidarietà?

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Goodhart, un liberal inglese contro il “laissez faire multiculti”

svela Il fondatore della rivista di sinistra Prospect l

La scorsa settimana è iniziato il processo a Michael Adebowale, il terrorista islamico che ha tagliato la gola al soldato Lee Rigby nel centro di Londra. In aula, l’assassino si è rifiutato di alzarsi in piedi all’ingresso del magistrato. Ha detto che “c’è soltanto Allah sopra di me”. Negli stessi giorni esce il libro di David Goodhart. Lui ama definirsi un “Hampstead liberal” e un “public-schoolboy leftist”, ovvero la quintessenza dell’intellettuale di sinistra impegnata. Già fondatore e direttore dell’elitaria rivista progressista Prospect, la bibbia del blairismo, Goodhart nel 2004 aveva provocato il suo schieramento ideologico di appartenenza con il saggio “Too diverse?”. Il saggio svelava per la prima volta il “dilemma progressista”, ovvero il fatto che troppa immigrazione può arrecare un danno alla solidarietà nazionale. Adesso Goodhart torna con un libro che è già un caso, si intitola “The British Dream” ed è la più serrata critica al multiculturalismo inglese e a sessant’anni di politiche di immigrazione.

Al centro del libro ci sono tre tesi fondamentali: “L’abisso che separa le élite e l’opinione pubblica sull’immigrazione”, “l’effetto corrosivo dell’immigrazione sulla solidarietà” e “il laissez-faire multiculturalista” con il risvolto del “cosmopolitanismo di sinistra”. Tanto basta per spingere la direzione del fortunato Hay Festival letterario, che ogni anno viene realizzato nel Galles, a bandire Goodhart, a lungo esponente di riferimento del laburismo inglese, dall’elenco degli scrittori invitati. All’autore sono piovute addosso da ogni parte le accuse di “razzismo”. Altri giornalisti hanno accostato il nome di Goodhart a quello di Enoch Powell e al suo cosiddetto “discorso dei fiumi di sangue”. Powell è stato un celebre studioso di greco antico che nel pomeriggio del 20 aprile 1968 pronunciò un discorso all’allora Midland Hotel di Birmingham in cui chiedeva al governo di bloccare l’immigrazione dalle ex colonie.

A partire dagli anni Sessanta, scrive Goodhart, il pubblico inglese è diventato sempre più critico nei confronti dell’immigrazione di massa, mentre la classe politica, “guidata da idee astratte e universaliste”, ha continuato a vederla come un “bene in sé”. Un esempio è il commento dell’ex premier Gordon Brown. Gillian Duffyk, una 65enne elettrice laburista da una vita, gli si era avvicinata per chiedere chiarimenti sulla sua politica sull’immigrazione. Dopo averle risposto sbrigativamente, Brown è entrato in auto e, senza accorgersi di avere ancora il microfono aperto, ha commentato: “Non avrebbero dovuto mettermi con quella donna. Di chi è stata l’idea? Quella è una bigotta che votava laburista”. Dal 2004 in poi, spiega Goodhart, “sono arrivate più persone in Inghilterra ogni anno che nell’intero periodo che va dal 1066 al 1950”. L’autore sostiene che i primi immigrati dopo la guerra sono arrivati in un’epoca di piena occupazione. Poi l’Inghilterra ha perso l’industria manifatturiera e anche il welfare state ha cominciato a collassare. E con essa la politica sociale di immigrazione di massa.  Tutto iniziò in Canada, spiega Goodhart. E iniziò bene. Nel 1971 il Canada fu il primo paese ad adottare ufficialmente il multiculturalismo, che da allora sarebbe stato adottato ufficialmente dalla maggior parte degli stati dell’Unione europea, con la Gran Bretagna alla testa di una tendenza mondiale. Ma quei tempi felici sono finiti, almeno in Europa. E per dirla con un recente saggio di Amartya Sen, premio Nobel, “in Inghilterra la fase positiva dell’integrazione multiculturale è stata seguita da una fase di separatismo”. Il vecchio multiculturalismo inglese, che Goodhart definisce “liberal” nel miglior senso del termine, è stato sostituito da un multiculturalismo di tipo “separatista”, nutrito di “antirazzismo dogmatico” e che “privilegia le identità delle minoranze sulla comune cittadinanza” e che vede la società come “una comunità di comunità”. Questo multiculturalismo è sfociato nella “ghettizzazione” e nella rottura del “contratto fra le generazioni”. 

Un po’ di numeri

Goodhart porta i dati di questo processo di reclusione delle minoranze: “Il 92 per cento degli imam vengono dall’estero, e anche le mogli dei pachistani sono ‘importate’, almeno la metà di loro. A Bradford, il 43 per cento della popolazione non parla inglese”. Secondo Goodhart “il welfare funziona soltanto con una società culturalmente omogenea”. Inoltre, è entrata in crisi la “Britishness”, ovvero quell’insieme di valori civici retaggio dell’imperialismo.

Basta dare un’occhiata alle scuole. Il dipartimento per l’Educazione inglese, dati citati anche da Goodhart, ha comunicato il numero di scuole con una particolarità: quella di non avere studenti britannici, ma solo immigrati. “Questi istituti sono aumentati vertiginosamente negli ultimi cinque anni, ben 84 contro i 31 del 2008”. Nella scuola elementare di Gladstone a Peterborough, su 440 alunni, neppure uno è di madrelingua inglese. Andrew Green, presidente dell’organizzazione MigrationWatch Uk, ha giustamente dichiarato che “se non c’è nessun bambino della comunità locale in una scuola, le prospettive d’integrazione sono vicine allo zero”. David Goodhart, che è anche direttore dell’istituto politico Demos, porta un altro dato a riprova della ghettizzazione. Uno studio ha mostrato che il 45 per cento dei gruppi etnici minoritari in Inghilterra e Galles sceglie di vivere in “aree dove meno della metà della popolazione è britannica”. E’ quella che Peter Hitchens, giornalista e fratello del più noto Christopher, sul Daily Mail ha chiamato “Alien Nation”, a proposito della trasformazione cultural-religiosa del Regno Unito. “Il futuro sarà un altro paese. Negli ultimi sessant’anni o quasi, abbiamo vissuto in una nazione simile a quella pre-bellica del 1939. Quel periodo sta avendo fine”.

Nel giro di sessant’anni un paese omogeneo al centro di un impero multietnico è diventato un paese multietnico senza più un impero”, scrive ancora Goodhart, indicando in questa la maggiore sfida all’Inghilterra. Un fenomeno di immensa portata che “non sta producendo integrazione ma separazione”, dice l’autore. E’ così allora che il “mito immigrazionista” va sostituito con quello che Goodhart chiama “nazionalismo progressista” (fatto suo anche dal premier David Cameron, che a Goodhart si è ispirato) e un “liberalismo realistico”, secondo cui l’immigrazione non viene considerata come un bene in sé, quasi un mito sociale fondativo, ma come “un processo da governare attraverso lo sviluppo di lealtà verso le istituzioni britanniche”.

© - FOGLIO di Giulio Meotti