La strana coppia, Renzi e D’Alema

Categoria: Firme

La leadership, il futuro del Pd, le larghe intese,

il TTB (tutto tranne Bersani) e le due opzioni per la guida del partito

Questa è la storia di un partito molto divertente, molto affascinante, molto intrigante, molto forte, molto in ascesa, molto interessante che a pochi giorni dal buon risultato ottenuto alle elezioni comunali dimostra però ancora una volta di essere – e lo diciamo con affetto – un po’ squilibrato, e un po’ fuori di testa. Intendiamoci: meglio avere un partito fuori di testa che essere fuori di testa senza avere neppure un partito. Ma per quanto ci si possa girare attorno la situazione in cui si trova oggi il Pd è oggettivamente paradossale. E prima di arrivare a parlare delle mosse e delle contromosse di quel politico con i calzoni corti che cerca un modo per indossare finalmente i calzoni lunghi – e le cui scelte comunque andranno le cose sposteranno senza dubbio i futuri equilibri del suo universo politico (parliamo naturalmente di Matteo Renzi) – può essere utile fare un piccolo riassunto di tutto ciò che si muove oggi dietro le quinte del più grande partito italiano: il Pd. Il risultato è il seguente: a neanche tre giorni dal sonoro cappotto rifilato al Pdl, e a neanche tre giorni dal diciassette a zero ottenuto dal centrosinistra alle amministrative, il Pd guidato da Guglielmo il Congelatore Epifani si ritrova nuovamente ad avere a che fare con una gustosa lotta fratricida fra tante piccole correnti. Dove i vecchi nemici si scoprono improvvisamente grandi amici (chiedere ai giovani turchi e ai renziani), dove i fustigatori di correnti si ritrovano tutti allegramente riuniti in una corrente (chiedere a Matteo Renzi), dove i teorici dell’anti correntismo lanciano dalla loro corrente le fatwe contro il correntismo (chiedere a Pier Luigi Bersani), dove gli anti renziani si scoprono improvvisamente renziani (chiedere a Massimo D’Alema), dove i bersaniani si scoprono improvvisamente anti bersaniani (chiedere a Matteo Ricci), dove i sostenitori del governo di cambiamento (quello con Bersani e Casaleggio) scoprono improvvisamente quanto siano irresponsabili i vari Grillo e Casaleggio (chiedere a Ignazio Marino), dove gli ex portavoce del segretario passano il loro tempo a insultare il vecchio segretario (chiedere ad Alessandra Moretti), dove un ex leader considera un successo personale la vittoria che il suo partito ha ottenuto un minuto dopo le sue dimissioni (chiedere ancora a Bersani), dove i rottamati finiscono nelle braccia dei rottamatori (chiedere a Walter Veltroni), dove i rottamatori stringono accordi con i rottamati (chiedere ancora a Matteo Renzi), dove ogni giorno compare un nuovo possibile candidato per il congresso (qualcuno ha notizie di Fabrizio Barca?), dove il giorno dopo l’annuncio di una candidatura si perdono le notizie di quella stessa candidatura (qualcuno ha notizie di Sergio Chiamparino?) e dove però tra le mille cose surreali che si intravedono nel grande romanzo democratico ciò che maggiormente stuzzica la curiosità degli osservatori riguarda un gioco di parole che nelle ultime settimane ha cominciato a circolare con insistenza nei corridoi del Pd: il Renzema. Di che si tratta? La storia non riguarda un semplice retroscena ma riguarda quello che forse è il capitolo più interessante e significativo di questa nuova fase del Pd. Il Renzema, cioè Matteo Renzi più Massimo D’Alema.

Andiamo con ordine. Dal punto di vista cronologico l’avvicinamento tra il principe dei rottamatori e il principe dei rottamati comincia l’undici aprile con il famoso incontro tra D’Alema e Renzi a Firenze (quando D’Alema chiese a Renzi la sua disponibilità a non rottamarlo in vista della corsa per il Quirinale, e quando il sindaco di Firenze diede la sua disponibilità, dando anche un contributo personale alla rottamazione di uno dei rivali di D’Alema al Quirinale, ovvero Franco Marini). L’avvicinamento si rafforza nel corso dei mesi con una serie di triangolazioni quotidiane tra gli ambasciatori del sindaco e quelli dell’ex presidente del Consiglio (il renziano più amato dai dalemiani è Dario Nardella, ex vicesindaco di Firenze). E si consolida nelle ultime settimane attorno a una riflessione importante che D’Alema e Renzi condividono e che riguarda il futuro della leadership del Pd. Già, ma che leader serve al Partito democratico? Martedì sera, intervistato da Lilli Gruber a “Otto e Mezzo”, l’ex presidente del Consiglio, che fino a qualche mese fa non perdeva occasione per dare dello “sfascista” al sindaco di Firenze (successe tra l’altro sempre a “Otto e Mezzo” durante le primarie), ha riconosciuto che “Renzi è una personalità fortissima, che ha una grande capacità di comunicazione e che se si impegnerà sarà la soluzione al problema della leadership del centrosinistra”. Il senso politico dell’affermazione di D’Alema, però, non va letto come un endorsement diretto al rottamatore (anche perché Renzi non si è ancora candidato ufficialmente) ma va letto sotto un altro punto d’osservazione, e sotto un’altra lente di ingrandimento senza la quale risulta impossibile capire qual è, al netto dei singoli scazzi di corrente, il cuore vivo del confronto culturale del nuovo Pd. E la questione è sempre quella: che leader serve al Partito democratico? I nomi naturalmente sono importanti, ed è evidente che la scelta che farà Renzi rispetto alla sua candidatura sarà decisiva per capire come si muoveranno le truppe. Ma al di là della decisione del sindaco di Firenze la novità assoluta è che oggi i due grandi nemici di ieri (D’Alema e Renzi) hanno la stessa identica idea sul profilo che dovrà avere il leader del Pd di domani: un leader forte, un leader carismatico, un leader potente, un leader moderno, un leader al passo con i tempi e un leader che in altre parole sia capace di offrire quel plusvalore di cui ha bisogno un partito strutturato, solido e pesante come è in fondo il Pd. Un leader che insomma sia – è questo il ragionamento sia di D’Alema sia di Renzi – più o meno l’esatto contrario di quello che è stato l’ex segretario Pier Luigi Bersani. E in questo senso, il documento scritto dai bersaniani contro il populismo leaderistico (pubblicato ieri da Europa e di cui parla qui a fondo pagina Alessandra Sardoni) è in un certo modo il simbolo perfetto del nuovo bipolarismo del Pd: tra chi intravede come unica salvezza per il centrosinistra la presenza in campo di un leader molto forte, e per questo chiede al Pd di non credere che i buoni risultati ottenuti alle comunali siano il frutto di una famigerata onda rossa generata dalla campagna elettorale di Bersani; e tra chi intravede invece come unica salvezza per il centrosinistra la prevalenza della ditta sul carisma, e per questo chiede al Pd di non cambiare rotta rispetto a quella imboccata prima della (non) vittoria alle elezioni di Bersani.

La traduzione politica di questa disputa culturale ha naturalmente dei riflessi importanti non solo nell’ambito dell’azione del governo in materia di riforme istituzionali (i sostenitori della necessaria presenza di una forte leadership nel Pd sono gli stessi che spingono affinché il nostro paese un domani abbia un capo dell’esecutivo in grado di governare senza tutti quei pesi e contrappesi previsti oggi dalla nostra costituzione; mentre i sostenitori della necessaria presenza di un leader non eccessivamente carismatico sono gli stessi che spingono invece affinché la Costituzione più bella del mondo non venga violentata dai riformisti costituzionali) ma anche all’interno della stessa battaglia congressuale. E in un certo senso oggi si può dire che, al netto delle scelte che farà Renzi, sul quale ci soffermeremo più avanti, l’elemento più gustoso di questa fase della vita del Pd riguarda lo scontro in atto nel vecchio corpaccione rosso: quello tra Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. La storia si fa interessante. Nel 2009, ricorderete, D’Alema fu il principale sponsor di Bersani, e fu lui che più degli altri, tra gli ex diessini, tirò la volata all’amico Pier Luigi durante le ultime primarie per la segreteria (avversari erano Franceschini e Marino). Per molto tempo D’Alema ha resistito alla tentazione di pizzicare con il suo pungiglione da scorpione il segretario del Pd, e fino alle ultime primarie Max ha sostenuto Bersani anche con una certa convinzione. La “pessima” campagna elettorale dell’ex segretario del Pd, la “surreale” fase vissuta nelle settimane successive alla non vittoria alle elezioni e la “scriteriata” gestione della partita sul Quirinale (le parole tra virgolette sono tutte di D’Alema) hanno però avuto l’effetto di allontanare D’Alema dall’amico Pier Luigi e di far tornare in funzione il vecchio velenoso pungiglione. E il risultato è che oggi all’interno del Pd la divisione più profonda che esiste tra i militanti e i parlamentari e i dirigenti ex comunisti riguarda proprio la frattura che si è venuta a creare tra bersaniani e dalemiani: con i primi che si farebbero fucilare piuttosto che vedere un leader come Renzi guidare il Pd e con i secondi che invece si farebbero fucilare piuttosto che vedere un leader come Bersani guidare ancora il Pd. Così dunque si spiegano le ragioni dell’improvviso feeling tra D’Alema e Renzi (nato quel giorno a Palazzo Vecchio). Così dunque si spiegano le ragioni dell’improvviso feeling tra dalemiani e renziani (e in questi giorni a Firenze i renziani riceveranno una pattuglia di dalemiani per discutere del futuro). Così dunque si spiegano i continui contatti nella segreteria del Pd tra dalemiani come Enzo Amendola e renziani come Luca Lotti. Così dunque si spiegano i continui contatti tra un importante ambasciatore del renzismo (Graziano Delrio) e uno dei più importanti segretari regionali del Pd (Stefano Bonacini, dalemiano, capo dei democratici dell’Emilia Romagna). Così si spiegano le continue triangolazioni tra la fondazione di D’Alema (ItalianiEuropei) e quella di Renzi (fondazione Big Bang). E così si spiega la ragione per cui l’ex presidente del Consiglio ha invitato lunedì prossimo il sindaco di Firenze in un seminario a porte chiuse che la fondazione di D’Alema organizzerà a Roma a Palazzo Rospigliosi proprio per parlare – oplà – della futura leadership del Pd. Al momento le convergenze parallele tra Renzi e D’Alema non vanno al di là della semplice declinazione del nuovo TTB (Tutto Tranne un Bersaniano). Ma il punto è che una buona parte dei dalemiani – nonostante in molti guardino con simpatia anche a Gianni Cuperlo – sostiene che per rimettere in carreggiata il centrosinistra sia necessaria una leadership esplosiva sul modello Renzi. E pur non potendolo ammettere a microfono accesso, i democratici con i baffi convinti che sia necessaria una discesa in campo del sindaco sono sempre di più, e nel Pd cominciano a farsi sentire (chiedere a Enzo Amendola, chiedere a Stefano Bonacini, chiedere a Nicola Latorre, chiedere ad Andrea Manciulli).

Renzi, come è noto, non ha ancora deciso che fare: aspetta che gli estensori delle regole del Pd facciano il loro dovere (lunedì si riunisce la commissione per scrivere le regole delle primarie); minaccia di non scendere in campo se le regole saranno restrittive (“non mi faccio fregare di nuovo!”); lascia intendere un giorno sì e l’altro pure di essere intenzionato a guidare il partito (e in questo senso sarà interessante leggere la prefazione che Renzi sta scrivendo alla nuova edizione del libro “L’Italia dei democratici”, di Giorgio Tonini ed Enrico Morando, dove Renzi, a quanto pare, spiegherà le ragioni per cui un partito come il Pd non può che avere una leadership carismatica sul modello Renzi); e intanto però ogni giorno è costretto a districarsi all’interno di un paradosso clamoroso di cui il sindaco stesso si è reso conto. Questo: essere contemporaneamente nel momento di massima indecisione personale e nel momento di massima esposizione mediatica, rischiando dunque più o meno quotidianamente di essere risucchiato dentro le logiche correntizie e di essere a poco a poco percepito sempre più non come il rottamatore del vecchio apparato ma semplicemente come un pezzo del nuovo apparato. Il rischio esiste, Renzi lo sa, i suoi lo sanno – e per questo il fronte dei rottamatori è in fermento, e per questo il gruppo degli interventisti renziani chiede al sindaco di intervenire e guidare il Pd proprio come fece Tony Blair nel 1994, quando prima di conquistare il paese il leader dei New Labour prese in mano il partito, costruì un nuovo rapporto con i sindacati e plasmò la sinistra inglese a sua immagine e somiglianza. La tentazione di Renzi di scendere in campo però non si spiega soltanto con il percorso stretto entro il quale si trova il rottamatore – che fare? Ricandidarsi a Firenze nel 2014 e correre il rischio di doversi dimettere in anticipo da Palazzo Vecchio per correre per la premiership in caso di fine anticipata del governo Letta? Oppure evitare problemi, prendere il partito e aspettare la fine del governo Letta con in mano il partito? – ma la si spiega anche con una ghiotta opportunità intravista dal sindaco dopo le comunali. Il dato molto basso sull’affluenza alle amministrative e la fuga degli elettori dall’universo grillino e da quello del Pdl hanno fatto capire a Renzi che in questo momento – adesso! – esiste una forte domanda di innovazione che potrebbe essere pericoloso non intercettare e che potrebbe essere letale, come già successo in altre occasioni, regalare al primo capopopolo di passaggio. A tutto questo poi va aggiunto un particolare non di secondo conto che riguarda il rischio che, secondo Renzi, correrebbe il Pd con l’affermazione nella prossima segreteria di quel patto di sindacato formato da Letta, Franceschini e Bersani. Un patto denunciato ieri anche dal capo dei giovani turchi Matteo Orfini (“anche il Pd è rimasto ostaggio della propria piccola oligarchia, del proprio ‘patto di sindacato’ interno, incapace di scegliere dove collocare se stesso, in che direzione tentare di ricomporre le nuove fratture che la crisi apriva nella società”) e un patto che a tutti gli effetti oggi sostiene il castello Pd e la segreteria Epifani. La non candidatura di Renzi, infatti, non farebbe solo tirare il famoso sospiro di sollievo al presidente del Consiglio e a gran parte del suo esecutivo ma aprirebbe nuovi giochi all’interno del Pd in vista del congresso, rendendo dunque possibile la conferma di Guglielmo Epifani. E la titubanza di Renzi e il buon risultato ottenuto alle elezioni dal Pd hanno incoraggiato il segretario traghettatore (e congelatore) a muovere anche all’interno del partito i primi passi per ragionare su una possibile riconferma in vista del congresso. Epifani oggi nega e ufficialmente ripete che il suo mandato è a termine; ma come raccontano al Foglio alcuni esponenti della segreteria in realtà il leader pro tempore del Pd sa che, in caso di passo indietro di Renzi, il suo profilo da pacificatore potrebbe trasformarsi in una candidatura condivisa e appoggiata dai tre azionisti che compongono il patto di sindacato del Pd: da Letta e Franceschini perché il presidente del Consiglio (come molti dei suoi ministri) considera la lontananza di Renzi dalla guida del Pd il miglior elisir di lunga vita del governo; da Bersani perché l’ex segretario con una ricandidatura di Epifani non sarebbe costretto a misurarsi con Renzi, non sarebbe costretto a cercare un altro cavallo su cui scommettere (Roberto Speranza?) e si vedrebbe garantito un ruolo di forza e di potere anche nel Pd del futuro.

In questo quadro caotico e disordinato negli ultimi giorni si è aggiunto anche un altro tassello che sarà destinato ad avere un ruolo di peso all’interno del mosaico del Pd: Nicola Zingaretti. Alcuni giornali (il Corriere della Sera in particolare) hanno scritto che il presidente della regione Lazio sarebbe pronto a candidarsi al congresso per contrapporsi a Renzi e riaggregare così attorno a una figura forte il fronte dei diessini delusi. Ieri Zingaretti ha smentito di avere quest’intenzione e anche al Foglio risulta che il presidente (che tra l’altro non è in buoni rapporti con Bersani) oggi non abbia alcuna voglia di scendere in campo per guidare il Pd. Di sicuro però, a prescindere dalle scelte che faranno Zingaretti e Renzi, nel Pd del futuro la vera sfida sarà proprio tra il sindaco e il governatore. La battaglia al momento ha un carattere squisitamente culturale, e anche qui c’entrano molto le differenti vedute in tema di leadership. Un domani però quando il governo Letta non ci sarà più la battaglia avrà un carattere diverso. Meno culturale e più politico, diciamo. “La verità – confida al Foglio un deputato del Pd molto vicino al sindaco – è che quando cadrà il governo e ci saranno le primarie nella battaglia per conquistare Palazzo Chigi ci saranno sia Renzi sia Zingaretti. Matteo lo sa e la sua scelta di scendere in campo per guidare il Pd potrebbe dipendere anche da questa semplice prospettiva”.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Claudio Cerasa   –   @claudiocerasa, 12/6