Così i tedeschi favoriscono la fine dell’euro

Categoria: Firme

Rigoristi e vittimisti

Dalla condivisione del debito all’instabilità valutaria, Berlino respinge i rischi potenziali e si gode i vantaggi certi

Sono tedeschi, ma sembrano partenopei: chiagn’e fotte è da un po’ di tempo la loro stella polare. A Berlino e a Francoforte l’ideologia ufficiale insiste sui pericoli e sui costi che, a causa della moneta unica e dei soci valutari acquisiti per suo tramite, derivano all’economia tedesca: esborsi per finanziare i fondi da cui sono tratti i sostegni agli stati in difficoltà (Grecia, Portogallo, Irlanda); rischio di incappare in contributi al servizio del debito altrui (Eurobond); potenziale instabilità valutaria connessa agli squilibri di bilancio degli stati soci. E’ invece omessa con cura la lista dei benefici apportati dall’euro: calo dei tassi di interesse sui titoli pubblici calcolabile in circa 10 miliardi all’anno dal 2009 per quanto riguarda il solo bilancio federale (esclusi i titoli emessi da regioni e comuni: sull’arco di vita medio dei titoli federali ciò significa circa 70-80 miliardi); vantaggi operativi per le imprese derivati dal differenziale favorevole dei tassi: imprese di altri paesi zavorrate da tassi più alti trascinati da una percezione di maggiore rischio del debito pubblico; conseguente riduzione di competitività nell’export da parte di altre economie dell’Eurozona (con il favorevole corollario di un crescente potenziale di shopping nei confronti di imprese estere e concorrenti in difficoltà); tasso di cambio che, per l’influenza dei soci valutari più deboli, risulta sottodimensionato rispetto al profilo dell’economia tedesca. 

In sostanza gli svantaggi sono – tranne il finanziamento ai fondi di sostegno che però è condiviso con gli altri Eurostati – tutti quanti previsionali ovvero potenziali, mentre i benefici sono sempre reali, immediati e anzi già incassati. Eppure nell’ultimo quadriennio, in un contesto di estesa rovina economica, la Germania, pur essendo l’unico stato o quasi che incamerava ampi vantaggi finanziari, si è atteggiata di continuo a vittima e per conseguenza, quasi per un riflesso di autotutela, a severo custode dell’ortodossia monetaria che dissesta i suoi soci. Colpevolizzare qualcun altro, che di suo già sta male, per un risultato che ci dona grandi benefici è un comportamento come minimo stravagante: a spiegarlo e a renderlo credibile è una nuvola di ideologia (che, come si sa, fa apparire plausibile anche la cuoca, o la rete, a capo del governo). La moneta unica in Europa si basa su un’ideologia – molto forte anche perché poco contestata – dalle grandi pretese ma di scarsa base empirica che si compone di tre pezzi. Il primo pilastro di questa ideologia sostiene che un’economia è sana (e suscettibile di integrarsi in un’area valutaria comune) solo se ha poco debito e inflazione bassa: ciò in pratica equivale a dire che la domanda interna va tenuta debole e i prezzi vanno compressi in modo da indirizzare le risorse dell’economia in prevalenza all’export. Il secondo pezzo dice che il governo della moneta deve avere un campo di gioco limitato per evitare conseguenze indesiderate sui prezzi, e il terzo sostiene che le sanzioni per i paesi che si scostano dal modello (e dai suoi vincoli) non possono essere limitate da clausole di salvaguardia che mettano in gioco altri fattori (occupazione, sviluppo).

E’ l’ideologia dell’euro che blocca le vie d’uscita per i paesi difformi dal modello orientato all’export, rende normale colpevolizzarli e fa pensare che inasprimenti fiscali giovino all’economia in fase di recessione. Non c’è base razionale per una visione che chiede a un gruppo di economie ampio e diversificato di integrarsi mediante l’adattamento coatto a un solo modello, per di più molto restrittivo: la sua adozione nel 1992 è piuttosto l’esito di una prova di forza in cui la Germania impone la sua idea, la Francia monetizza l’acquiescenza con l’illusione di una partnership di potere (“il motore franco-tedesco”), la Spagna paga il prezzo della propria dipendenza economica e l’Italia sconta con un conformismo pomposo e autolesionista una profonda debolezza politica. Appena finito l’impero sovietico, subito torna a pesare il carico della potenza tedesca (popolazione, economia, centralità geografica): l’orizzonte di storia europea del successivo ventennio (e oltre) è già tutto segnato.

La Corte costituzionale di Karlsruhe esprime appunto questa configurazione: rappresenta il custode della costituzione materiale dell’euro e – al posto del prestatore – il suo giudice di ultima istanza. Oggi, padrona dell’ideologia e dominante nell’economia, la Germania ha in mano per intero la strategia dell’Europa: potrebbe temperare con la duttilità discrezionale della politica lo schematismo dell’ideologia e dare respiro – con saggezza empirica – ai paesi che più patiscono i tormenti della crisi. Del resto Berlino nel 2003, quando il suo deficit sforò la soglia del 3 per cento, chiese per sé una deroga all’applicazione delle sanzioni e oggi pretende di lasciare fuori dal perimetro della Vigilanza bancaria le sue guaste casse locali. Al contrario sceglie di omettere la politica e di monetizzare tutte le opportunità della crisi portando così allo stremo i suoi soci: ciò ne intensifica l’egemonia regionale, ma – nel momento in cui manda in spirale recessiva l’intero scacchiere europeo – riduce la sua leva negoziale e, stringendo troppo l’allineamento mercantilista con la Cina, finisce a un eccesso di distanza dagli Stati Uniti.

La guida tedesca dell’euro sbocca così, alla vigilia delle elezioni di settembre, in un duplice impasse politico che – quasi più del disastro economico – mette a rischio la costruzione europea: da un lato crea attrito con Stati Uniti e Gran Bretagna, dall’altro codifica la slealtà dentro l’Unione minando con ciò in radice ogni progetto di integrazione. In queste condizioni, senza un profondo ripensamento politico di cui peraltro non si vede traccia, la scomposizione rischia di essere l’esito rigettato da tutti ma alla fine più probabile.

di Antonio Pilati, 15/6 FQ