Bernanke conia ancora moneta

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Il governatore della Federal Reserve è ottimista

sull’occupazione in America ma promette di continuare con le politiche interventiste. Tanto pragmatismo, poco moralismo, anche per il successore che verrà

I mercati finanziari che lo temono e i nipotini di Hayek che lo sperano, dovranno darsi una calmata: la Federal Reserve di Ben Bernanke non smette di stampare moneta, guardando all’inflazione e alla disoccupazione. Nell’un caso e nell’altro non ci sono cambiamenti tali da giustificare un passo indietro. Certo, prima o poi i biglietti verdi smetteranno di cadere copiosi dall’alto, “Helicopter Ben” il prossimo anno tornerà a studiare la grande crisi, non solo quella del 1929, ma anche quella del 2008 e c’è già chi come Laurence Meyer, un ex della Fed, insinua che sia stato “licenziato” da Barack Obama, ma le innovazioni introdotte dalla sua politica non convenzionale hanno trasformato i mercati, modificato le aspettative, cambiato in gran parte l’ortodossia. L’exit strategy arriverà, ma nulla sarà più come prima. L’acquisto diretto di obbligazioni private, l’intervento attivo sul mercato immobiliare (settore in miglioramento e fonte di “ottimismo”, secondo Bernanke), tutta la nuova cassetta di attrezzi chiamata “Quantitative easing”, ha reso la politica monetaria più sofisticata. Certo, la simmetria dell’informazione non è perfetta nemmeno per lui, tuttavia Bernanke è sempre più un soggetto attivo e potente del mercato.

Ieri e l’altroieri si è riunito il Fomc (Federal open market committee), il comitato che decide la regolazione dell’offerta di moneta. Ha esaminato gli indicatori chiave. “L’attività economica si espande a un passo moderato”, dice il comunicato. Ci sono miglioramenti, ma l’inflazione è ancora sotto l’obiettivo del 2 per cento (l’indice dei prezzi al consumo è cresciuto solo dell’1,4) e la disoccupazione arriverà al 6,5 per cento nel 2014. La politica monetaria resta dunque espansiva (dieci voti a favore e due contro nel Fomc). Ma tutti sono consapevoli che i tassi d’interesse sotto zero mettono in difficoltà le banche e i fondi pensione. Senza contare il rischio di nuove bolle finanziarie (Wall Street viaggia oltre i livelli pre crisi, una quota non giustificata dall’andamento degli utili delle società quotate). Dunque, i signori del dollaro devono usare il bilancino, anche se il rischio più grave oggi è provocare un crollo in Borsa con una congiuntura ancora debole (la crescita di poco superiore al 2 per cento sembra tanto vista dall’Europa ma è  troppo bassa per gli standard americani). Resta poi il problema di fondo che la politica monetaria non riesce a risolvere: perché l’economia americana è così fiacca? La domanda se l’è posta lo stesso Bernanke e ha ammesso di non conoscere la risposta. Forse non ce n’è una sola. Forse questa astenia dell’investimento è derivata da incertezze eccessive, dal rallentamento dei mercati emergenti – Cina compresa – dalla trappola della liquidità di keynesiana memoria (il cavallo non beve, si diceva una volta, anche se il secchio davanti a lui trabocca d’acqua, cioè di moneta). L’economista Martin Feldstein sostiene che i tassi d’interesse negativi hanno alternato il “normale” funzionamento del mercato monetario, quindi le Banche centrali debbono fare un passo indietro, sia pure con la prudenza indispensabile per non provocare sfracelli. Sulla stessa lunghezza d’onda Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank schierato contro Mario Draghi che – di tutta risposta – si dichiara pronto a muovere i tassi ancora più in giù. Fatto sta che mentre la moneta aumenta, il credito all’economia diminuisce, come dimostra l’economista Steve Hanke della Johns Hopkins, e ciò è clamorosamente vero per l’Europa. Ci sono, dunque, problemi strutturali non facili da risolvere, alcuni spettano ai governi, ma quelli decisivi sono nelle mani delle imprese, delle banche, del capitale e del lavoro.

L’eredità di Bernanke non sarà facile per il successore (anche se ieri il diretto interessato non è stato al totonomine dei giornalisti): se prevarrà una scelta interna come Janet Yellen, che in pratica è la sua versione femminile, non c’è da attendersi mutamenti radicali. Nemmeno se verrà Tim Geithner, che insieme a Bernanke ha gestito il collasso di Wall Street; semmai sarà più attento al sistema bancario e alla Borsa. Larry Summers, altro candidato eccellente, garantisce una filosofia post keynesiana. Christina Romer forse sarebbe troppo vicina all’Amministrazione (è stata consigliere di Obama). Donald Kohn troppo greenspaniano. Alan Blinder un fuoriclasse assoluto. Quanto a Stanley Fischer, che ha lasciato la Banca d’Israele, è un maestro, tra l’altro, di Bernanke e di Draghi. Tutti assertori di una Banca centrale interventista e di un mestiere che assomiglia più all’arte che alla scienza.

© - F.Q di Stefano Cingolani