Le trattative di Ingroia

Categoria: Firme

Inchiesta su un ex pm che voleva fare troppi lavori

e che ha costruito la sua (scarsa) fortuna politica sul circo mediatico. Ecco i dettagli di una carriera che Marco Dettaglio non vi racconterà mai

Non sapendo più che cosa fare e che cosa dire pur di continuare a riscuotere uno stipendio di magistrato senza mettere piede in un ufficio giudiziario, il dottor Antonio Ingroia, meglio conosciuto come l’eroico pubblico ministero della fantomatica Trattativa tra lo stato e la mafia, ha fatto il gran gesto di rinunciare alla toga per dedicarsi corpo e anima all’impegno politico: da vero partigiano difenderà la Costituzione da ogni aggressione presente e futura.

Dovrà anche trovarsi un lavoro, visto che di pura politica non si campa, ma non sarà un problema: da magistrato ha traccheggiato sotto banco con quel campione di politica politicante che va sotto il nome di Rosario Crocetta, governatore della Sicilia. Che, per venirgli incontro, gli aveva offerto un incarico di sottogoverno nelle esattorie regionali, ma il nostro eroe voleva la botte piena e la moglie ubriaca: pretendeva che il Csm, organo di autogoverno dei giudici, gli concedesse la possibilità di diventare il Gran Gabelliere di Sicilia e di rimanere contemporaneamente nei ranghi della magistratura. Sarebbe stato l’ideale: l’ambizioso pm avrebbe mantenuto il prestigio e il timore che la toga incute, avrebbe incassato uno stipendio quasi doppio, e soprattutto avrebbe avuto tutto il tempo a disposizione per battere in lungo e in largo gli studi televisivi, predicare le sue teorie sui misteri d’Italia e tentare di ricostruire, dopo il tonfo elettorale del 26 febbraio, una parvenza di credibilità attorno alla sua leadership, chiamiamola così, e al partitino dell’unovirgola che aveva messo in piedi a inizio anno per concorrere, come Bersani e Berlusconi, alla suprema carica di presidente del Consiglio.

Ma il Csm, come si ricorderà, non gli autorizzò il distacco negli uffici della regione siciliana. A quel punto, l’eroe della Trattativa avrebbe potuto incassare il colpo e andare a lavorare ad Aosta, dove nel frattempo l’organo di autogoverno lo aveva destinato. Invece ha preferito resistere e inciuciare con partiti e sindacati, lisciando il pelo oggi a Crocetta e domani alla Fiom di Maurizio Landini. Fino a quando dal Csm non gli hanno fatto sapere esplicitamente che il giochino del piede in due scarpe non poteva più continuare. Da qui il gran bel gesto di abbandonare la toga e di collocarsi senza vincoli di alcun genere nel libero mercato della politica.

Un posticino glielo troveranno comunque: a Roma o a Palermo, non sarà difficile per i suoi amici individuare nel sottobosco del potere una presidenza o una consulenza. Ma se è vero che non sarà un problema trovare un’occupazione, è altrettanto vero che, fuori dalla magistratura, per Ingroia nulla sarà più come prima. Già la campagna elettorale gli ha portato più danni che vantaggi, più perdite che guadagni. Si era presentato con l’aureola del mito, il mito del guerriero solitario che pur di cercare la verità era in grado di sfidare gli intoccabili di ogni ordine e grado, ed è finito su YouTube, inchiodato per sempre alla croce della derisione da una irresistibile parodia di Maurizio Crozza. Si era presentato come il giustiziere capace di spazzare via con un solo colpo di spada corrotti e corruttori ed è finito in una macchietta esilarante: difficilmente gli elettori ricorderanno il rivoluzionario programma con cui il tribuno togato pretendeva di dare la scalata al governo del paese; ma si scompisceranno ancora per molti anni dalle risate ricordando il personaggio “confuso, impacciato e sperso”, parole di Gian Carlo Caselli, messo in scena da Crozza per divertire la platea.

Ma una caricatura, si sa, fa parte del gioco, per quanto amaro. E comunque da ora in avanti il vero grande problema di Ingroia non sarà tanto la risata che la gente fatalmente accoppierà al suo linguaggio e alla sua immagine. Sarà la sua stessa credibilità. Perché alle amenità della satira si sovrapporranno interrogativi ben più pesanti che prima o poi finiranno per mettere in discussione sia il suo passato di pubblico ministero eroico e straordinario sia il suo futuro di uomo politico puro e duro. Anche i bambini delle scuole elementari, per esempio, hanno capito che la sua scampagnata in Guatemala, durata poco più di trenta giorni, doveva servire soprattutto per preparare la campagna elettorale e non per combattere i narcos.

Tanto è vero che i bravi ragazzi del Fatto, registi occulti della sua discesa in politica, gli hanno subito approntato rubriche di prima pagina e collegamenti con gli studi televisivi di Michele Santoro, non per parlare di quell’infelice paese del Centroamerica, del quale non fregava niente a nessuno, ma della Trattativa e degli eccellentissimi indagati e testimoni sui quali Ingroia aveva libertà di spargere ogni sorta di sospetto e allusione: dal presidente della Repubblica al procuratore generale della Cassazione; da Nicola Mancino a Lillo Mannino, ex ministri democristiani, a Marcello Dell’Utri per anni braccio destro di Silvio Berlusconi; da Mario Mori ad Antonio Subranni, ex generali dei carabinieri, per i quali ha chiesto il rinvio a giudizio con accuse infamanti e che fin dall’udienza di oggi saranno costretti a sedere, come imputati, accanto agli stessi boss mafiosi che loro stessi hanno contribuito ad arrestare.

Come giudicheranno, giornali e giornalisti che in questi anni gli hanno fatto da corona e da sgabello, la campagna del Guatemala? Inviteranno ancora Ingroia a recitare le sue litanie, giudiziarie e politiche, senza mai contrapporgli un dubbio o una perplessità? Gli riserveranno lo stesso credito, ora che anche i bambini delle scuole materne hanno capito che la maxi inchiesta sulla Trattativa, nelle intenzioni dei registi del Fatto, non era tanto una questione di giustizia, come la propaganda voleva e vuole ancora far credere, ma il cocchio dorato che avrebbe dovuto trasportare lo straripante pm nel firmamento del potere politico? Giornali e televisioni gli assegneranno gli stessi spazi e gli stessi inchini di pochi mesi fa ora che anche le pietre hanno capito qual è il senso della verità che ha guidato Antonio Ingroia fino a quando ha annunciato di volere finalmente lasciare la magistratura? Pur di evitare ogni riferimento alle sue ultime piroette da magistrato – come traccheggiare con la politica, nonostante il divieto imposto dalla legge – il fraternissimo amico di Marco Travaglio ha spostato il baricentro mediatico verso il vittimismo, a lui molto congeniale, e ha dispiegato la solita gnagnera contro il Csm che lo avrebbe punito e inviato ad Aosta in primis per evitare che lui scoprisse altre sconvolgenti nefandezze sulla Trattativa e, in secundis, per rendere un servizio a tutti quelli, da Mancino a Giorgio Napolitano, che lui, l’incorruttibile, avrebbe voluto invece trascinare per i capelli nel gorgo inquisitorio di un processo senza fine. Insomma, null’altro che un covo di manutengoli e di servi sciocchi questo Csm, a ben sentire le piagnucolose recriminazioni del partigiano della Costituzione. Eppure, per almeno sette anni, il Consiglio superiore della magistratura è stato il terreno sul quale Antonio Ingroia ha giocato le sue partite più impegnative. Con straordinaria abilità e padronanza di mezzi, anche i più audaci. Tra l’altro avvalendosi, nei passaggi decisivi, proprio della benevolenza di quel Nicola Mancino, oggi tanto odiato e tanto criminalizzato, che dal 2006 al 2010 è stato vicepresidente del Csm.

Durante la gestione Mancino, il pm che ama ancora definirsi “il pupillo di Paolo Borsellino” ha piazzato tre colpi importantissimi: tre nomine che, oltre, ad agevolare le carriere dei diretti interessati, sarebbero risultate strategiche per il buon esito dell’inchiesta sulla Trattativa e del salto in politica che il processo avrebbe poi eventualmente comportato. Il primo colpo risale all’estate del 2006. Portato ancora in palmo di mano da tutti i leader della sua corrente, quella di Magistratura democratica, Ingroia si spende con tutta la cordata affinché il Csm nomini procuratore capo di Palermo, al posto di Pietro Grasso, non il magistrato che vanta i maggiori titoli, cioè Giuseppe Pignatone, oggi procuratore capo di Roma, ma Francesco Messineo che, avendo purtroppo in quel palazzo di giustizia un cognato sotto inchiesta per mafia, avrà certamente bisogno di irrobustire la propria immagine magari accucciandosi sotto l’ala protettiva del pm antimafia più in vista e più accreditato presso i giornali di mezza Italia; cosa che sarebbe poi puntualmente avvenuta, tanto che il Csm, dopo sette anni, si è accorto della sudditanza del capo al suo sottoposto e ha pensato di correre ai ripari ipotizzando addirittura un trasferimento di Messineo per incompatibilità ambientale.

Secondo colpo: tra il 2008 e il 2009, mentre dai corridoi della procura palermitana cominciano a uscire sempre più insistenti e incontrollate indiscrezioni sulla Trattativa – indiscrezioni che è facile immaginare con quale forza e con quali brutti presagi giungono alle orecchie di Mancino – Ingroia ottiene anche la sua promozione a procuratore aggiunto, cioè a vice di Messineo. Tutto legittimo, ci mancherebbe. Ma due puntigliosi colleghi che aspiravano allo stesso incarico, Ambrogio Cartosio e Giuseppe Fici, si sentono ingiustamente scavalcati e presentano ricorso al Tar. Sostengono, carte alla mano, che l’organo di autogoverno, presieduto da Mancino, ha attribuito a Ingroia, su alcune valutazioni attitudinali, punteggi scandalosamente alti. Il tribunale amministrativo per ben due volte dà ragione ai sostituti esclusi e ordina persino la decadenza di Ingroia. Ma il pm della Trattativa resta tranquillamente al suo posto sia perché il Csm, sempre presieduto da Mancino, trova a Cartosio una sede altrettanto prestigiosa e un incarico altrettanto adeguato; sia perché, nel frattempo, il ministro di Giustizia, Angelino Alfano, con atto discrezionale, gli ha concesso l’immediato possesso dell’ufficio palermitano: di fatto, una forma di blindatura.

La terza nomina è quella di Roberto Scarpinato a procuratore generale di Caltanissetta. Una nomina importantissima per tenere al riparo la Trattativa da interferenze o sabotaggi: quella di Caltanissetta è la procura che ha competenza territoriale sui magistrati di Palermo e Scarpinato è il pubblico ministero che, dopo avere rappresentato l’accusa nel processo di primo grado a Giulio Andreotti, ha gestito i famigerati “Sistemi criminali”, un mega fascicolo dove, almeno fino al 2005, è entrato di tutto, dalla mafia alla massoneria agli immancabili servizi deviati, comprese le presunte trame tra stato e mafia messe insieme da Ingroia per comporre il mosaico della sua grande inchiesta, quella che avrebbe dovuto dargli la massima gratificazione sul piano giudiziario e – perché no? – anche sul piano politico. Ma nella nomina di Scarpinato, il pm della Trattativa non ha avuto un ruolo diretto. L’ha intersecata per una singolarissima coincidenza e solo nell’ultimo atto.

Siamo nell’aprile del 2010 e il Csm è ancora presieduto da Mancino il cui mandato scadrà quattro mesi dopo, ad agosto. Scarpinato ha tutti i titoli per aspirare a un ruolo superiore e la conferma arriva dalla commissione “incarichi direttivi” che dopo un attento scrutinio rimette al supremo giudizio del plenum il nome suo e quello di Santi Consolo, oggi procuratore generale di Catanzaro. La seduta plenaria per la scelta del vincitore è fissata per il 7 aprile, mercoledì. Ma, per un capriccio del destino o una bizzarro allineamento degli astri, succede che per il giorno prima, martedì 6, il presidente della quarta sezione del tribunale, dove si celebra il processo contro il generale Mario Mori per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano, convoca a Palermo come testimone l’ex ministro socialista della Giustizia, Claudio Martelli. Il quale, interrogato da Ingroia in aula, finisce per parlare dell’immancabile Trattativa chiamando clamorosamente e pubblicamente in causa l’ex ministro dell’Interno. Sì, proprio lui, quel Nicola Mancino che il mattino dopo, mercoledì 7 aprile – immaginarsi con quale stato d’animo: tutti i giornali riporteranno con titoli d’apertura il j’accuse di Martelli – presiederà a Roma il plenum del Csm.

Raccontano le cronache di quel giorno che Scarpinato ottenne sedici voti contro gli otto di Consolo. E che Mancino, come dicono in Sicilia, fece fino in fondo il proprio dovere: votò per Scarpinato. Secondo coscienza.

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