Cairo, il re saudita e una vendetta da 12 miliardi su Obama

Categoria: Firme

Washington pensa di interrompere gli aiuti militari all’Egitto,

ma tanto non importa più, grazie al piano di Riad

Secondo un senatore americano che ha parlato con il Daily Beast, l’Amministrazione Obama ha scelto di interrompere gli aiuti militari all’Egitto dopo la repressione brutale ordinata dal governo dei generali contro la Fratellanza musulmana (l’Amministrazione nega, dice che soltanto oggi Obama procederà a una “revisione” degli aiuti assieme ai consiglieri). Se ne parla da tempo, si è già decisa la sospensione di un’esercitazione militare congiunta con l’esercito egiziano – era sembrata una misura ridicolmente inadeguata, dopo i morti in strada – e anche il blocco di alcune forniture di armi già in programma, prima di caccia F-16 e poi di elicotteri Apache. Ora potrebbe arrivare l’interruzione totale per gli aiuti, un miliardo e trecento milioni di dollari ogni anno: è una delle cifre più citate sulla questione egiziana. Non importa più. I soldi americani quasi non conteranno. La decisione (o l’indecisione) dell’Amministrazione e tutta la tiritera di minacce che l’ha preceduta – “se continuate così, potremmo rivedere gli aiuti” – è stata resa priva di effetti dalla controdecisione dei “suoi più stretti alleati in medio oriente”, come nota nel titolo il Wall Street Journal, e si riferisce soprattutto ai sauditi, che stanno coprendo di soldi i generali del Cairo.

Il re Abdullah in queste settimane di dopogolpe si sta prendendo una rivincita enorme in Egitto contro i detestati Fratelli musulmani e contro, appunto, l’alleato americano Barack Obama. Soltanto due anni fa era al telefono con il presidente durante i giorni della rivoluzione egiziana e per la rabbia ebbe un malore con la cornetta in mano – così si disse, anche se la notizia non fu mai confermata. Il sovrano aveva chiesto che Washington schierasse il suo peso dalla parte di Hosni Mubarak contro le manifestazioni di popolo in piazza Tahrir e gli americani invece avevano abbandonato il rais egiziano al suo destino, all’arresto, alla prigione. Quando la sera dell’11 febbraio l’esercito egiziano annunciò le dimissioni del presidente, alla corte di Riad i sauditi erano lividi: non soltanto temevano che le proteste sarebbero prima o poi arrivate pure sotto le loro finestre ma avevano anche scoperto in quel momento che cosa gli alleati americani avrebbero fatto, anzi, non fatto. Se fosse giunta l’ora, Obama non avrebbe levato un dito in loro difesa.

Ora i sauditi stanno rimettendo le cose al loro posto, almeno secondo il punto di vista della casa regnante (circola una petizione degli studiosi islamici in Arabia Saudita contro il governo dei generali al Cairo) dopo due anni di destabilizzazione in cui hanno visto gli arcinemici Fratelli musulmani – considerati pericolosi destabilizzatori – ascendere al potere e governare per un anno. Venerdì il sovrano di 89 anni, che non appare quasi più in pubblico per quanto è malconcio di salute, ha ordinato di leggere un suo testo su al Ekhbariya tv, canale ufficiale del regno. Era un messaggio esplicito di appoggio al generale ora al comando in Egitto, Abdel Fattah al Sisi, che ieri ha richiamato personalmente per ringraziarlo (questo delle telefonate e dell’etichetta sta diventando un punto essenziale per chiarire chi conta: il segretario alla Difesa americano, Chuck Hagel, ne ha fatte 17 al generale per convincerlo a trattare con i Fratelli, con i risultati che si sono visti). In un passaggio del discorso in tv il sovrano incolpa gli americani  – senza nominarli – per le violenze di questi giorni tra egiziani: “Outsider ignoranti che non conoscono gli arabi, l’islam e l’Egitto” e “le loro interferenze senza senso nella politica del paese più popoloso del mondo arabo”.

Due giorni fa è stato il turno del ministro degli Esteri saudita, il principe Saud al Faisal, di parlare: “Per quanto riguarda coloro che annunciano di voler fermare la loro assistenza all’Egitto o minacciano di farlo, la nazione araba e islamica è generosa con la sua gente e tenderà in aiuto la sua mano”, ha detto, dopo avere dichiarato di considerare l’Egitto la sua “seconda patria”. Assieme al Kuwait e agli Emirati arabi uniti, l’Arabia Saudita promette al governo del putsch un pacchetto di aiuti da 12 miliardi di dollari, che fa impallidire gli aiuti americani ed europei combinati (poco più di due miliardi e mezzo di dollari in totale). I sauditi offrono la quota più grande: un miliardo cash, due miliardi in petrolio e altri due in depositi bancari.

L’ascesa dei generali era un esito molto sperato a Riad. Sul Monde Diplomatique, Alain Gresh nota che il 30 giugno, prima del golpe, un editoriale del giornale saudita Okaz annunciava: “Per evitare un bagno di sangue e la guerra civile, i militari governeranno l’Egitto per un breve periodo di tempo, non più di un anno”. Gresh descrive anche l’esistenza di una garanzia offerta dai Said ai generali egiziani: aiuti subito in cambio della rimozione dei Fratelli musulmani dal potere e di un trattamento migliore per l’ex presidente Mubarak, ora in prigione. Considerate le notizie su una possibile scarcerazione dell’ex rais, i militari hanno soddisfatto entrambe le condizioni. Tra loro e Riad c’è un rapporto di fiducia: il generale al Sisi è stato per anni l’attaché militare dell’ambasciata egiziana in Arabia Saudita e il presidente nominato dai militari, Adly Mansour, era definito in epoca prerivoluzione “l’uomo di Mubarak in Arabia Saudita”.

L’artefice di questa controrivoluzione è indicato nel principe Bandar bin Sultan, storico ambasciatore in America tornato capo dei servizi sauditi nel luglio 2012. Sarebbe lui a coordinare anche l’intensa attività di lobbying nelle capitali europee, in questi giorni, per fare ingoiare il boccone della repressione militare in Egitto.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Daniele Raineri   –   @DanieleRaineri