Giornali specchio d’Italia

Categoria: Firme

Contro le casematte illiberali. La miserevole occupazione della cultura

e delle redazioni da parte degli emuli di un Gramsci orecchiato (ma alla bisogna applicato). Il panorama dei quotidiani, specchio opaco dell’eterno paese-ircocervo

Dopo anni di gramsciana occupazione delle casematte della società civile, dall’università all’editoria – che è, poi, la versione non rivoluzionaria, ma non meno illiberale e inquinante, assunta dal marxismo-leninismo in un paese finito, a causa della Guerra fredda, nella sfera di influenza strategica degli Stati Uniti – la condizione culturale dell’Italia è miserevole. Ma a renderla miserevole non è l’occupazione delle casematte borghesi da parte degli ultimi rappresentanti di una filosofia sconfitta dalle “dure repliche della Storia”, ma che conserva, negli scritti di Karl Marx – che peraltro nessuno ha letto, e conosce – una forte componente dialetticamente problematica, bensì l’opera di piccoli opportunisti che ne orecchiano i cascami, cioè la versione grossolanamente demagogica e popolare che aveva indotto Marx a dire “io non sono marxista”.

L’Italia non è una democrazia liberale e neppure un paese di socialismo reale, bensì un ridicolo ircocervo, frutto del bilancino del farmacista col quale chi è posto alla sua testa, in ogni settore della sua vita pubblica, la mantiene in equilibrio precario fra un’idea di democrazia, pasticciata e culturalmente inadeguata, e un’idea di socialismo mal digerita e politicamente improponibile. L’opportunismo di chi si barcamena fra un’idea e l’altra, non avendo assimilato né l’una né l’altra, è la versione opaca e ambigua di un interessato equivoco spacciato per pluralismo, che si manifesta appaltando – come, nel Medioevo, il governo delle città fra le corporazioni – pezzi della realtà, e della sua rappresentazione politica, contraddittori, e fra loro incompatibili, di volta in volta a qualche approssimativo e malaccorto interprete della democrazia liberale e a qualche disinvolto divulgatore di un marxismo immaginario. Rassicura editori, preoccupati unicamente dai deficitari bilanci societari, che non si pongono il problema del paese nel quale vorrebbero vivere e, tanto meno, della linea editoriale del medium che lo dovrebbe interpretare e che finanziano; accontenta lettori, politicamente analfabeti di ritorno, rappresentanti esemplari del “cittadino di buon senso” che di tutto e il contrario di tutto parla non sapendo mai ciò che si dice.

E’ una situazione confermata, con ragionieristica costanza,  da un sistema informativo del tutto inutile sia a produrre idee, sia a creare profitto. Già la Costituzione, subordinando la proprietà all’“utilità sociale”, aveva creato le premesse di un eventuale passaggio del paese, se il Pci avesse vinto le elezioni dell’aprile 1948, al socialismo reale; il quale socialismo reale, subordinando le libertà civili all’“edificazione del socialismo”, ha aperto le porte – nei paesi europei dove si è affermato sulle baionette dell’Armata rossa sovietica – dei tribunali ordinari a una magistratura ossequiente alla stanca ortodossia e, in suo nome, scrupolosa nello spedire nel Gulag chi non vi si adegui. Il guaio è che, per un capriccio della storia, per la ferrea eterogenesi dei fini di ogni utopia di sinistra, per l’insipienza di gran parte degli intellettuali, ora, da noi, l’evoluzione dell’ircocervo volge verso una soluzione autoritaria, assai più prossima al vecchio fascismo che al socialismo. L’Ordinamento giuridico repubblicano, laico, democratico, antifascista, ha assorbito, senza mutarlo, l’apparato amministrativo dispotico, nonché una parte della legislazione fascista, ponendo le premesse di un ritorno all’Antico regime, in nome dell’Ordine e della sicurezza, che ora pretende di governarci.

L’ultima fiammata di vitalità culturale del sistema è stata la nascita del Giornale, ad opera, allora, di alcuni transfughi dal miglior Corriere della Sera del Dopoguerra, quello di Piero Ottone. Grazie a Enzo Bettiza, il Giornale aveva ospitato sulle sue pagine il fior fiore della cultura liberale nazionale e europea. Ma il conflitto fra il direttore, Indro Montanelli – al quale il gran talento di scrittore ha costantemente fatto da schermo, se non da alibi, a una inclinazione al trasformismo, a seconda della congiuntura storica – e l’editore, Silvio Berlusconi, che sognava di trasformare il quotidiano nell’house organ del proprio movimento politico, ha successivamente spento anche quella fiammata. L’omologazione generale alla prassi gramsciana ha ucciso, inoltre, sotto il profilo professionale, il mercato, cancellando l’opportunità, per i giornalisti delle due testate che non vi si trovassero a proprio agio, di abbandonarne una per passare all’altra. Il Corriere era precipitato in una crisi dalla quale è uscito grazie al rigore intellettuale e manageriale di un cattolico, Giovanni Bazoli, che, dopo averlo salvato dalla bancarotta, lo ha messo nelle mani di un direttore di formazione culturale liberale. La Stampa si era ridotta a un foglio regionale che aveva la funzione, neppure troppo velata, di “non disturbare il manovratore” nei rapporti fra la grande industria, proprietaria del giornale, e bisognosa degli aiuti di stato, e la classe politica al governo. Solo negli ultimi tempi, grazie all’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, meno sensibile alle vicende politiche nazionali, sta tornando il quotidiano dal taglio moderno e internazionale che era stato, e brillantemente, prima del crepuscolo.

Oggi, il Giornale, ad opera di alcuni redattori e collaboratori (Porro, Feltri, Veneziani, Lottieri, Alessandro Gnocchi, capo di una eccellente sezione culturale) e a un direttore (Sallusti) che ha imparato, al Corriere di Paolo Mieli, il mestiere del gran cronista, dà segni di saper uscire dalla sudditanza agli sbalzi d’umore, e alle vicende giudiziarie del bizzarro fratello del proprio editore.

Libero, che del Giornale è il clone politico, si colloca sulla stessa lunghezza d’onda, interpretando gli umori di una maggioranza produttiva non ancora totalmente integrata in una cultura liberale, ma ad essa neppure tanto lontana. La Stampa è un giornale elegante, ma, forse, ancora troppo attento a restare fedele – malgrado l’empirico anticonformismo di Luca Ricolfi, un uomo della sinistra approdato alla metodologia della conoscenza liberale – a un giornalismo “politicamente corretto” che è, poi, oltre che la manifestazione convenzionale dell’ortodossia di sinistra del suo direttore, la traduzione degli interessi industriali e politici della Fiat nella situazione data. Il Corriere della Sera oscilla fra la tradizione liberale, peraltro condizionata dall’ipoteca gramsciana, e la preoccupazione di mantenersi equidistante fra le forze politiche in campo, grazie al suo paziente direttore; una garanzia di neutralità politica che, però, si risolve troppo frequentemente in neutralità culturale e ideale e nel dire al lettore solo ciò che si aspetta gli si dica. Rimane il Foglio, il piccolo quotidiano di nicchia diretto dalla felice bulimia, culturale e politica, del suo direttore, l’amico Giuliano Ferrara, un ex comunista diventato cautamente liberale, grazie all’originario realismo, ma culturalmente troppo impegnativo e politicamente troppo originale, in un’Italia conservatrice, per essere di riferimento a un pubblico più vasto, non solo conservatore, ma anche progressista.

Questo è, dunque, il desolante panorama culturale e informativo di un paese a cavallo fra la debole democrazia liberale, nata malaticcia nel 1948 e, oggi, quasi moribonda, e un sistema, ispirato ai regimi di socialismo reale dell’est Europa; un paese totalitario già nel disegno del suo stesso primitivo Ordinamento giuridico e, ora, a causa della carica demagogica e populista impressa al paese da una invasiva legislazione ordinaria, sulla strada di una involuzione autoritaria di destra. I quattro gatti liberali, sempre più isolati nelle università come nei media, assistono al degrado con molto disagio e crescente pessimismo. Non hanno un luogo dove riparare per esprimersi liberamente; è pur vero che non sono perseguitati; ma non si può neppure dire non siano discriminati. Sono tollerati, questa la loro condizione. Sopravvivono in un clima, ovattato e gesuitico, che confeziona ogni pensiero con la costante preoccupazione di evitare che esca dal conformismo “buonista” e collettivista tracciato dall’aratro neogramsciano. La dirigenza intellettuale non ha letto Gramsci, ma ne interpreta gli indirizzi con una sorta di riflesso condizionato paramarxista che impedisce al paese di entrare nella Modernità.

Di tanto in tanto, i quattro gatti liberali finiscono al confino della messa al bando dei loro scritti, che rimangono nei cassetti di redazioni ostili e di diverso avviso; l’ostracismo non si incarna nella sanzione penale, ma nella forma, laica, democratica, antifascista, della censura, nella marginalizzazione professionale da parte di una marmorea burocrazia che ricorda la kafkiana nomenklatura sovietica e che, come quella, non è mai responsabile di nulla e non risponde a nessuno. Se proprio deve dare spazio a qualcosa che rifletta un qualche sentimento liberale, l’“opportunismo al comando” lo fa fare, prudentemente, da un comunista. Non si sa mai…

di Piero Ostellino, F.Q: 21/8