Ultimo treno per la giustizia

Pannella e il Cav. Un vecchio savio matto

e un macchinista senza agibilità. Ma loro possiedono l’unico salvacondotto che conti per l’Italia. Riformare la magistratura, che non si lascerà mai riformare

Va a finire – non sarebbe la prima volta – che il più savio di tutti è un vecchio matto con gli occhi spiritati da sciamano e la coda di cavallo. Marco Pannella sta offrendo, con i referendum, il biglietto per l’ultimo treno. Non certo l’ultimo treno per Berlusconi, che non ha più neppure il passaporto, e il cui potente salvacondotto si è rivelato fantomatico più dell’arma segreta di Hitler. No, il fischio del capostazione annuncia l’ultimo treno per la riforma della giustizia, il solo salvacondotto che conti per l’Italia, il “grande veicolo” su cui salire tutti. L’ultimo, si badi: non ci saranno a breve altre partenze, e a quel punto toccherà farsela a piedi, e ci vorranno anni o decenni. Non si annuncia come un viaggio comodo: la destinazione è incerta, le rotaie dissestate, il percorso disseminato di strettoie, ponti scricchiolanti e carcasse lasciate a marcire sui binari. Ma è la sola via possibile, o almeno la più realistica. Perché se è vero, come ha scritto Angelo Panebianco, che un potere forte e unito (la magistratura) non si lascerà mai riformare da un potere debole e diviso (la politica), ne consegue che l’unica flebo per iniettare in tempi brevi vigore e legittimità al potere cagionevole è un mandato popolare inequivocabile.

Il viaggio è accidentato, e uno dei candidati macchinisti è nelle condizioni – di agibilità, ma anche di credibilità – che sappiamo. Ha il solo vantaggio di non aver più nulla da perdere, il che, diceva una vecchia canzone, è uno dei sinonimi di libertà. Hic Rhodus, hic salta: faccia capire, una buona volta, se riformare la giustizia gli preme davvero. Serve però una mappa, una strategia e una visione rischiarata delle cose. Berlusconi, che in barba alle suppliche di Filippo Mancuso fece deragliare dolosamente il treno precedente, quello dei referendum del 2000, non ne ha mai avuta una, ed è stato il suo errore imperdonabile. Non ha avuto una strategia per la gestione dei suoi casi personali, oscillando capricciosamente – secondo la distinzione classica di Jacques Vergès – tra il “processo di connivenza” e il “processo di rottura”, tra il riconoscimento e il disconoscimento della legittimità dei suoi giudicanti, per tacere dei rattoppi casarecci delle leggi ad personam. Tantomeno ha avuto una strategia per la conduzione della battaglia politica: sventolare a intermittenza davanti alla magistratura associata il babau della Grande riforma senza mai metter mano all’aratro significa sottovalutare e travisare fatalmente la natura e le forze in campo del nemico.

Ho detto nemico, e non è parola bella, ma qualunque riforma della giustizia degna del nome passa per una limitazione dei poteri della magistratura (nel senso, se non altro, di bilanciare questi poteri con responsabilità altrettanto ampie e di ricomprenderli per qualche via nel processo democratico), e non c’è modo di ottenerla se non a brutto muso, fatte salve l’astuzia e la diplomazia. L’Anm non è la Gilda dei Leccalecca del “Mago di Oz”, e ha poco da temere da una classe politica che arretra impaurita perfino davanti alle associazioni dei tassisti: anzi, dalle grida di chi predica da lupo e razzola da agnello trae solo un guadagno d’immagine, e un credito vittimistico da vantare abusivamente. Se stavolta (lo spero contro ogni speranza, assuefatto al peggio) si vuol fare sul serio, bisogna sgombrare il campo da alcuni abbagli ventennali, che saranno anche utili per compattare le truppe ma non aiutano a vincere la battaglia, anzi alla lunga la compromettono.

Primo, la favola delle toghe rosse, e della magistratura come potere ausiliario che vuole spianare la via al governo delle sinistre. Alla magistratura, quali che siano le inclinazioni politiche dei suoi singoli membri, del governo delle sinistre non importa un fico secco; alla magistratura non interessa che la magistratura, e la perpetuazione dei propri poteri, tra i quali quell’indefinito e rischioso potere di legittimazione prepolitica: il famigerato “controllo di legalità”, così caro all’ideologia professionale dei magistrati, che si assegnano un ruolo da Guardiani di una repubblica islamica il cui carisma discende dalle prosaiche vie burocratiche di un concorso. Sarebbe saggio smetterla di frugare nelle biografie dei giudici, nel loro cassetto della biancheria, perdersi nel Cencelli correntizio o ripescare testi di trent’anni fa in cui l’uno o l’altro togato inneggiava a Mao. Sono passatempi che depositano un velo di chiacchiere sulle questioni di sistema, le sole che importino, e non è un caso se i garantisti veterani non parlano di toghe rosse ma di “partito dei magistrati”, come Mauro Mellini: altro matto savio scappato dallo stesso manicomio.

La seconda favola da cui riscuotersi, stretta parente della prima, è quella della “minoranza di giudici politicizzati” a fronte della grande maggioranza dei buoni funzionari ligi solo al dovere. Potrà servire a lisciare il pelo alla corporazione, ad ammannire zuccherini qua e là, ma è una descrizione ingannevole delle cose. Certo, nessuno nega l’esistenza di avanguardie spericolate di “guastatori del diritto”, come li chiamava Domenico Marafioti. Ma il guaio è che la magistratura è tutta, da cima a fondo, politicizzata. E lo è, vorremmo dire, suo malgrado. Lo è per via della grande ipocrisia costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, che coniugata all’indipendenza anarcoide dei pm si traduce di fatto in una gestione tutta discrezionale della politica criminale (e delle altre questioni che una classe politica ignava le ha via via delegato); e lo è per l’immenso arbitrio di cui può disporre nello stabilire i tempi, le priorità, le scadenze. Avviare indagini in assenza di notizie di reato con risorse e strumenti esorbitanti, decidere quali reati perseguire e su quali soprassedere, quale fascicolo aprire e quale far seppellire dalla polvere, quale imputato cuocere a fuoco lento e quale incenerire in una vampata, quale processo portare a destinazione e quale avviare verso la dolce morte della prescrizione, sono tutte scelte “politiche”, e lo diventano in senso ancor più stretto quando l’imputato è un politico. Ed è fatale, allora, che siano interpretate politicamente, com’è avvenuto – ultima di mille volte – per la sentenza della Cassazione.

I filistei, per ignoranza o più spesso per calcolata ipocrisia, si trincerano dietro frasi destinate a riempire gli sciocchezzai del futuro: “La legge è uguale per tutti, i magistrati fanno solo il loro lavoro”; il che è vero, se non fosse che il lavoro del magistrato ha confini d’arbitrio così indeterminati da comprendere la facoltà di decidere chi è più o meno uguale davanti alla legge. Gli altri gridano al golpe o alla rivoluzione giudiziaria, ma rischiano di raccontarsi un’altra favola. Intendiamoci, il tema del golpe fu sollevato con grande serietà – tra gli altri dallo stesso Mellini – all’epoca di Mani pulite, e lo ha ripescato di recente Piero Ostellino parlando, a proposito della sentenza Ruby, di rivoluzione che diventa “fatto giuridico” e non più rottura dell’ordine legale. Ma al di là del caso specifico (quell’intervento, per quel che conta la mia opinione, non mi convinse), dire che una rivoluzione avviene per vie legali equivale a dire che la legge affida ai magistrati poteri eversivi. E questo invero riguarda, ben più che il sigillo finale della sentenza, la fase delle indagini e la gestione mediatico-giudiziaria del processo. Un paradosso? Neppure tanto. Se mettiamo sulla nostra mappa l’obbligatorietà dell’azione penale, l’indipendenza e l’irresponsabilità del pm, l’assenza di immunità a salvaguardia della politica e il rapporto perverso magistratura-informazione scopriamo di essere nella situazione, democraticamente insostenibile, per cui l’ultimo sostituto di Vattelapesca, l’ultimo clone di De Magistris, ha una pistola puntata alla tempia del sistema politico. E chi gliel’ha messa in mano non è altri che la politica: prima quella lasca e munifica dei democristiani, poi quella terrorizzata e inconcludente della cosiddetta Seconda Repubblica.

Cosa dobbiamo fare, allora? Implorarlo di non premere il grilletto o addirittura di puntarsi la pistola addosso? Sperare che l’arma non finisca in mano a un comunista, a una femminista, o domani al militante di chissà quali cause? Confidare nel prudente “scapegoating” della corporazione o del Csm, che non vuole sputtanarsi con chi dà troppo nell’occhio? Sono strategie perdenti, e da perdenti: un ventennio è bastato a dimostrarlo. C’è una sola via, la proverbiale “Road not taken” di Robert Frost, i cui binari passano per la riforma della giustizia. Una riforma che responsabilizzi i pubblici ministeri e tolga loro la schiavitù (e gli occasionali piaceri) dell’arbitrio. I referendum del matto con la coda di cavallo questo propongono di fare, a monte e a valle. A monte, con la separazione delle carriere; a valle, con la responsabilità civile. In mezzo c’è l’amnistia. Tutto il resto sono favole, buone solo per addormentarsi e perdere l’ultimo treno.

di Guido Vitiello, Foglio, 24/8

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