Il risiko mediterraneo complica la caccia

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italiana ai capital. Il Sole 24 Ore ha riportato la notizia

dell’imminente ingresso del fondo sovrano del Qatar nel capitale sociale del Fondo strategico italiano (Fsi), ramo di investimenti del gruppo Cassa depositi e prestiti (Cdp). La notizia sembra cadere in un clima generalizzato di indifferenza, e merita invece qualche riflessione per l’importanza che riveste il rapporto con i fondi sovrani nella fase storica che attraversiamo.

L’ingresso dei qatariani in Fsi testimonia innanzitutto l’esistenza di un legame sempre più stretto con una delle potenze più dinamiche e ambiziose della penisola araba. L’Italia non è nuova né a investimenti da parte di fondi sovrani – studi della Consob testimoniano una presenza massiccia nelle quotate italiane – né a investimenti da parte di soggetti mediorientali: da quelli del Kuwait nel secondo Dopoguerra al legame dei libici con la famiglia Agnelli (Fiat, Juventus) e con ampi settori dell’establishment bancario. Buona parte di quegli investimenti avvenne tuttavia nel quadro di una politique arabe democristiana e socialista, di una “ambiguità gestita” che, se da un lato incontrava talora la diffidenza di Washington e Tel Aviv, dall’altro consentiva a Roma di accreditarsi come mediatore accettato da controparti a elevata complessità. Lo scenario geopolitico odierno, con il venir meno dei blocchi contrapposti della Guerra fredda e il disimpegno statunitense sempre più probabile grazie all’emancipazione energetica, è completamente diverso. Si è poi estinta la classe politica della Prima Repubblica capace di gestire col bilancino i rapporti economici alla luce delle convenienze politiche. Prova ne è che sul fronte interno né l’accattivante formula della “diplomazia della crescita” coniata dal ministro Emma Bonino né l’altrettanto suggestiva piattaforma “Destinazione Italia” hanno finora svelato strategie articolate da mettere in campo nei confronti dei grandi investitori sovrani.

Di certo c’è che il gruppo Cdp è guardato con interesse dai fondi sovrani in ragione della posizione centrale che occupa all’incrocio tra le politiche industriali e il privato, l’accesso ai principali progetti di infrastrutturazione nazionale e transfrontaliera, la proiezione paneuropea e mediterranea tramite la partecipazione in Marguerite e InfraMed, o il rassicurante salotto e camera di compensazione di poteri che spesso fa da collante tra i fondi sovrani e i loro omologhi, come testimoniato dal recentissimo ingresso dei numeri uno di Qatar Investment Authority e Mubadala (Abu Dhabi) nel board del fondo sovrano russo.

Resta da capire quale menù venga servito in cambio dei petrodollari, e quanto sia appetitoso. Osservatori come Massimo Mucchetti (Pd ed ex Corriere della Sera), lo scorso Ferragosto, hanno segnalato aspetti nello statuto di Fsi che potrebbero rappresentare freni incompatibili con la realtà economica, come paletti dimensionali agli investimenti di Fsi e il divieto di investimento in aziende in difficoltà. Il perimetro di Cdp è molto ampio, e non riesce impossibile immaginare ingressi anche nel capitale della stessa capogruppo – magari per affiancare e rimpiazzare le fondazioni bancarie indebolite dalla crisi – o nelle subholding dedicate alle reti come Cdp Reti. A patto, però, che questi investimenti siano preceduti da una riflessione di lungo periodo, con un occhio a conto economico e stato patrimoniale e un altro alla mappa geografica e ai libri di storia.

Mentre è possibile non porsi troppi interrogativi sulla provenienza degli investimenti quando hanno a oggetto aziende private, altrettanta leggerezza non è ammessa per investimenti che riguardano interessi pubblici. I fondi sovrani mediorientali, si dirà, hanno investito in quasi tutte le grandi banche occidentali e dunque queste preoccupazioni sono o tardive o fuori luogo. Eppure vale la pena di ricordare che i fondi sovrani non sono investitori qualsiasi, e che, con l’eccezione di pochi soggetti occidentali (gli scandinavi, il canadese e l’australiano) e asiatici (Singapore), è comunemente accettato che i loro investimenti siano effettuati tanto con un’ottica di lungo periodo quanto con una finalità di tipo geopolitico. A questo dato va affiancato un esempio, guarda caso proprio quello del Qatar, che oggi è un paese dalla politica estera assertiva e dagli interessi spesso disallineati con il resto del Golfo e, più in generale, degli stati a prevalenza musulmana. Sulle vicende egiziane, per esempio, si è registrata una spaccatura tra Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, schierati a favore dei militari, e Turchia e Qatar, in difesa dei Fratelli musulmani. Divergenze di questo tipo si verificano con grande frequenza lungo tutto l’arco di destabilizzazione islamico-mediterraneo, e segnalano una crescente rivalità nella compagine di investitori sovrani mediorientali. Il rischio, da non ignorare, è quello di sillogismi all’insegna de “l’amico del mio nemico è mio nemico”. Da ultimo vanno richiamate le peculiarità squisitamente italiane, come la natura bancocentrica della nostra architettura finanziaria e il ruolo centrale della Cdp nelle politiche economiche nazionali. Ragioni in più per parlare con tutti gli investitori interessati all’Italia, ma tenendo bene in mente i nostri interessi.

di Francesco Galietti