Violante PD, l’eretico creato dal dogma armato

dei Piccoli Inquisitori

Dal rapporto deformato tra magistrati e politica alle ragioni della pacificazione. Lo scontro col partito-Rep.

Il traditore si fucila nella schiena, il convertito si disprezza o al più si tollera con stupore. Chi non è perdonabile è l’eretico, colui che confuta la retta via dopo aver trovato il baco nel dogma, l’anello che non tiene. Nel fuoco di fila di sospetti, qualche volta di insulti, da anni alimentato da parte del circo manettaro e del circolo di cultura torinese – gli Zagrebelsky, i Mauro, i nipotini di Bobbio ma anche quelli di Giancarlo Caselli – contro Luciano Violante e le sue prese di posizione antigiacobine sulla giustizia e sul rapporto che la sinistra dovrebbe (avrebbe dovuto) intrattenere con il fenomeno Silvio Berlusconi, c’è più il terrore dei dogmatici per l’eresia che il disprezzo per il traditore. C’è un perché, è una storia cominciata nella Torino degli anni Settanta, in quel crogiuolo di ideologie in cui confluivano il Pci, la cultura azionista e pure un certo intransigentismo cattolico. In quella Torino un giovane giudice istruttore di famiglia comunista e di studi pugliesi come Luciano Violante condivideva con un cattolico torinese come Giancarlo Caselli una comune idea militante della magistratura. In quell’ortodossia torinese – che il (torinese) direttore di Repubblica Ezio Mauro rinfaccia alla “nuova destra” (sic)  di vivere come una ossessione, “quell’ossessione permanente e ormai eterna nei confronti della cultura azionista, anzi dell’‘azionismo torinese’, come si dice da anni con sospetto e con dispetto, quasi la torinesità fosse un’aggravante politica misteriosa, una tara culturale e una malattia ideologica” – Luciano Violante si è mosso, ha vissuto lunghi anni di impegno professionale e politico, assumendosi e mai rinnegando la responsabilità di scelte, qualche errore e inevitabili forzature. In magistratura dal 1966, dal 1970 docente di Diritto penale all’Università, di quel clima e di quell’operare immerso nell’ideologia torinese non si pente: “All’epoca della lotta al terrorismo, alla grande mafia e alla corruzione, ai tempi di Tangentopoli sostenemmo con rigore la battaglia per la legalità”, ha detto di recente in un’intervista.

Così la storia non è una storia esente da errori. Violante che si fa un nome nazionale ordinando l’arresto di Edgardo Sogno e  istruendo un’inchiesta finita in niente per un golpe da operetta (Pietro Di Muccio ne ripercorre la storia nel recente “Il golpe bianco di Edgardo Sogno” per Liberilibri). Ma anche Violante che in quegli anni è l’interprete, in una città particolarmente colpita, dell’intransigenza contro il terrorismo, prima di entrare nel 1979 nel primo Parlamento post omicidio Moro e diventare, deposta la toga, il punto di riferimento e di raccordo tra la magistratura di sinistra (in rapporto simbiotico con Magistratura democratica), il partito dei magistrati (lui tuttora sostiene che il “partito dei magistrati non esiste”) e il Partito. Il modus cogitandi da magistrato interventista è ancora forte quando Violante diviene – da presidente dell’Antimafia nel 1992 – l’alter ego politico del suo antico sodale torinese, ora procuratore a Palermo, nel Grande processo, quello a Giulio Andreotti. Fu lui ad accogliere (o accettare) da Tommaso Buscetta le “rivelazioni” sul terzo livello della mafia. Andreotti attese la lontanissima assoluzione per muovere le sue critiche al presidente dell’Antimafia. Fu lui, sempre nel 1992, a guidare la carica contro Corrado Carnevale, incalzando Claudio Martelli a sanzionare “senza indugi” il giudice, che nel frattempo veniva mascariato, dopo “l’ennesima ingiustificata cancellazione di ergastoli da parte del dott. Carnevale”. E ancora nel 2006 non mollava certi suoi dubbi su Forza Italia, “Mangano era lo stalliere mafioso del presidente del Consiglio”, disse facendo scoppiare il prevedibile putiferio. Insomma, il Male assoluto.

Ma c’è un prima e c’è un dopo. E non c’è scandalo in questo. L’eresia non è un tradimento, questa è la versione grossolana dei faziosi, ma trovare l’aporia dentro a una dogmatica ortodossa. Come quella che oppone gli aventi diritto a governare ai paria della sottocultura dell’illegalità. Quando nel 1996 divenne  presidente della Camera il suo discorso di insediamento fu un appello alla riconciliazione storica tra destra e sinistra. Violante è l’uomo dietro D’Alema nella Bicamerale, colui che con Marco Boato prova a riscrivere le regole della giustizia, mentre su inchieste di mafia e spericolatezze di procure iniziano a piovere critiche. Molti anni dopo, le ragioni di una svolta profonda, non opportunistica, di un cambio di paradigma intellettuale che ha molto a che fare con l’ideologia torinese sono riassunte in un piccolo libro, “Magistrati”, un pamphlet einaudiano che si inaugura nel segno di Francis Bacon: “I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono”. Tra qualche narcisistica dissolvenza (il caso Andreotti, la minimizzazione del suo personale ruolo) spicca però un’autocitazione (agosto 1993) che fa di lui un antesignano del Termidoro: “Nessuna società ha tollerato troppo a lungo un ‘governo dei giudici’”. Il libro è una lucida disamina degli errori di una magistratura che si è troppo e malamente politicizzata, a partire dagli anni 60 e 70, quando i giudici celebravano i nuovi riti del proprio ruolo di “istituzione della trasformazione”: dalle “‘controinaugurazioni’ dell’anno giudiziario” alla rivendicazione di un “uso alternativo” del diritto. Non mancano gli affondi, già profezie dello scontro finale con la cricca Ingroia-Travaglio che sarebbe arrivato qualche anno dopo: “Rispetto ai tempi nei quali le inchieste giudiziarie nascevano da inchieste giornalistiche, il rapporto oggi si è invertito. Sono le inchieste giornalistiche che nascono dalle inchieste giudiziarie”. L’Anm? Solo una “vociante controparte del sistema politico”. Era il Violante nuovo, che ragionava di riforme e offriva al centrodestra un dialogo istituzionale, e bocciava la sinistra, di rito torinese e non solo: “Il tema posto dalle nuove forze politiche è la costruzione di un sistema più semplice, più schematico, non ossessionato dalla pedagogia politica… La sinistra denunciava la calata di nuovi Unni… Ma se quegli Unni fossero un po’ riformatori?”.

Violante non è un convertito sulla via di Damasco, le sue idee sono maturate in un percorso di laico e per nulla soprannaturale convincimento. Per Umberto Eco (altro piemontese d’ideologia, applicato alle belle lettere e allo spirito di patata tipo Azione cattolica) “spesso sono gli inquisitori a creare gli eretici”. Ribaltando con un po’ d’ironia la sua massima banale, si potrebbe dire che ha ragione. La sottile eresia di Violante rispetto a quel conglomerato ideologico che mescola azionismo e pedagogismo comunista giudiziario, “controllo di legalità” e “controllo di moralità”,  nasce dalla consapevolezza di un ex magistrato comunista che, una volta varcata la linea della politica, è la politica come logica di composizione degli interessi, e di riconoscimento e di legittimazione tra diversi, il potere che deve occuparsi delle condizioni d’esistenza del diritto e della legge. Non viceversa. E questa è forse l’eresia davvero insopportabile.

E’ il Violante che nel 2006, partecipando a un incontro di “Torino Spiritualità” intitolato a  “Conflitti, convivenze e e riconciliazioni” scelse di parlare della “amnestia” di Trasibulo dopo la cacciata dei tiranni da Atene che pose fine alla guerra civile: “Aristotele riporta le condizioni  della pacificazione: ‘Nessuno ha più diritto di ricordare i delitti commessi da un altro, a meno che non siano stati commessi dai Trenta, dai Dieci, dagli Undici e dagli ex governatori del Pireo; e neppure da questi, se essi renderanno conto del loro operato’”. Commentava Violante: “Nella tradizione successiva questo decreto prese il nome di ‘amnestia’, cioè di non memoria. Tuttavia questo termine può trarre in inganno. L’intesa ricordata da Aristotele, infatti, non richiede l’oblio, ma il divieto di accusare singoli per i delitti commessi nel passato… L’ordine dopo le offese in questo caso è raggiunto attraverso la pacificazione imposta per legge dai nuovi governanti  a tutti i cittadini se la verità è dichiarata e la responsabilità accettata da parte dei colpevoli (se renderanno conto del loro operato)”. Un modo di intendere il rapporto tra poteri che ancora oggi, duemila e cinquecento anni dopo, scandalizzerebbe molti della sinistra manettara. Notevole, sempre nel libro “Magistrati” del 2009, anche la riflessione sulla “judicialization of politics”, quel conflitto tra giudici e potere politico che da decenni investe le società occidentali. Uno sguardo globale al problema del bilanciamento tra poteri come chiave della democrazia lontano mille miglia dal provincialismo di certi approcci di magistrati che, quando parlano di giustizia globale, al massimo si spingono in Guatemala.

Il resto è cronaca. Il caso Palermo-Napolitano, l’insistenza nel dialogo sulle riforme istituzionali, fino alle ultime meditate idee sul come affrontare senza giacobinismi la decadenza di Berlusconi dal Senato sono legna al fuoco fin troppo secca per accendere i roghi che purificano l’eresia.

© - FOGLIO QUOTIDIANO 29/8di Maurizio Crippa

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