C’è una via politico-militare seria contro Assad,

Categoria: Firme

ma non è quella scelta da Obama

Il peggior risultato con il massimo impegno: i raid che Barack Obama si accinge a lanciare sulla Siria non avranno un effetto decisivo sul piano militare, non daranno un aiuto concreto ai ribelli, non piegheranno Bashar el Assad, ma avranno conseguenze politiche e di immagine negative per gli Stati Uniti e l’occidente sulla scena mediorientale, incluse possibili ritorsioni missilistiche su Israele. La “mindless strategy” (copyright Donald Rumsfeld) della Casa Bianca prevede soltanto il lancio di missili su alcune decine di obiettivi militari per alcuni giorni e nulla più. Grosso modo la replica della operazione “Desert Fox” lanciata da Bill Clinton in Iraq tra il 16 e il 19 dicembre 1998, 300 missili su 50 obiettivi  con lo scopo di dissuadere Saddam Hussein dall’usare armi di distruzione di massa. Effetto: nullo.

Per comprendere l’assoluta marginalità anche di questa nuova operazione, basta ricordare che Stati Uniti e Nato effettuarono per 9 mesi nel 2011 non meno di 10.000 missioni aeree contro l’esercito di Muammar Gheddafi, le cui Forze armate erano una piccola frazione rispetto a quelle siriane, prima di riscontrare un effetto decisivo.

Prevedere l’inutilità sostanziale dei raid progettati da Obama non comporta affatto negare la necessità di un intervento militare contro la Siria, ma rafforza la constatazione dell’assoluta mancanza da parte dell’attuale Amministrazione americana di una visione concreta degli attori della crisi siriana, peggiorata da una dottrina errata sulle dinamiche del medio oriente. Questo preclude la strada all’unico intervento militare utile e decisivo. Per punire Assad per l’uso di armi chimiche basterebbe fornire armamenti ai ribelli laici (autoblindo e armamento medio e leggero), senza alcun impiego di Forze armate occidentali. Lo scenario siriano presenta una caratteristica politico-militare unica, che non c’era in Libia, in Iraq e in Afghanistan: l’impegno a fianco dei ribelli laici di più di diecimila disertori dell’esercito di Damasco, inclusi gli ufficiali, con eccellente professionalità, ma con armamenti quasi nulli. La principale remora a questa opzione, che avrebbe potuto e dovuto essere dispiegata sin dal 2012, è nota: la presenza in Siria di consistenti nuclei di terroristi islamici. La giusta preoccupazione di non fornire armi ai qaidisti era ed è però facilmente risolvibile. Come ha dimostrato il reportage di Elizabeth O’Bagy pubblicato dal Wall Street Journal e tradotto dal Foglio il 3 settembre, sul terreno le forze dei disertori e dei ribelli nazionalisti sono ben distinte da quelle dei qaidisti, con relativi checkpoint nelle zone liberate. Ma soprattutto è diversificato il retroterra logistico degli uni e degli altri. Turchia, Giordania e Kurdistan iracheno ospitano le retrovie dei disertori e dei nazionalisti e controllano che non vi siano infiltrazioni qaidiste. Il nord del Libano, invece, dove sono impiantate consistenti forze sunnite e islamiste, sostenute da Arabia Saudita e Qatar, è il “santuario” dei qaidisti. Se Barack Obama lavorasse a una coalizione con il fidato re Abdullah II di Giordania (avversario storico degli islamisti, come dei Fratelli musulmani), con il premier turco Recep Tayipp Erdogan (meno fidato, ma pur sempre un democratico e un membro della Nato) e con Massoud Barzani, presidente del Kurdistan iracheno, unica regione democratica del mondo arabo, che sostiene i curdi siriani in armi anche contro i qaidisti, potrebbe rapidamente organizzare una catena di rifornimenti militari determinante per punire Assad per l’uso di armi chimiche e sconfiggere l’Internazionale sciita dei pasdaran iraniani e di Hezbollah.

Questa era ieri ed è oggi l’unica opzione politico-militare seria, senza contraccolpi negativi per l’occidente (e per Israele). Per comprendere perché non sia perseguita bisogna guardare l’immagine del segretario di stato americano, John Kerry, in conviviale e amabile conversazione con Assad e signore nel 2010. Una foto diversa dalle tante che ritraggono grandi della terra a fianco di altri dittatori arabi. Kerry, infatti, come la leader della minoranza democratica alla Camera americana, Nancy Pelosi, che incontrò Assad nel 2006 in polemica con George W. Bush, Hillary Clinton e Barack Obama erano convinti che Assad fosse il baricentro decisivo della politica del dialogo che avrebbe sbloccato il contenzioso sul nucleare iraniano, come la crisi israelo-palestinese. Sulla certezza di poter contare sulla mediazione fattiva del “riformista” Assad (Hillary Clinton così lo definì dopo i primi tre mesi di massacri) Obama fondò il suo appello al dialogo con i regimi islamici lanciato dal Cairo il 6 giugno 2009. Fallita nel nulla quella dottrina, Obama e Kerry scoprono ora che Assad è invece, come sosteneva George W. Bush, la punta di lancia dell’“asse del male”. Ma, al solito, non hanno un piano B. Replicano così gli ingloriosi errori di Jimmy Carter con l’Iran (la disastrosa operazione di Taba per liberare gli ostaggi) e le inutili dimostrazioni punitive di Bill Clinton, nella peggiore tradizione dei presidenti democratici.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Carlo Panella, 5/9