E’ difficile essere di sinistra. Il bel dialogo tra

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Bertinotti e Terzi però aiuta (ma anche no)

Come è difficile essere di sinistra. Uno ci prova in tutti i modi, ma sempre più spesso, lascia perdere. Sente Papa Francesco parlare degli “ultimi” e Matteo Renzi di asfalto e gli prende lo scoramento. Vede i suoi compagni contenti solo se a qualcuno mettono le manette e ha un attacco di depressione. Legge le cronache del “travaglio” del Pd sulle “regole congressuali” e pensa “chi se ne frega”. Rivolge il pensiero alle prossime elezioni (a un certo punto, presto o tardi, ci saranno) e constata che non sa per chi votare, forse non vota. Poi rimugina: e se, grazie all’astensione a sinistra, poi vince la destra?

E non trova aiuto da nessuna parte. Nessuno che ti venga in soccorso almeno per capire. Nella rissa sconsiderata dei talk show è quasi impossibile riconoscere quel che è di destra e quel che è di sinistra. Le parole sono sempre le stesse: rigore, morale, equità, merito. E perdono ogni senso. Così rimane una scontentezza che non si sa neppure quando sia cominciata, ma che domina incontrastata. Che invidia – viene da pensare – quando c’erano alcuni comunisti che dicevano con sicurezza: i nostri problemi risalgono all’XI Congresso. Che invidia quella sinistra che non perdona la svolta del Pci dell’89. E i nostalgici? I critici? Quelli che sanno ancora arrabbiarsi e sentirsi puri? Beati loro. E beati tutti coloro che sanno con sicurezza che i mali della sinistra italiana sono cominciati perché non ha intrapreso seriamente la via socialdemocratica. O quelli che ingenuamente credono che con la eliminazione di Berlusconi si può ricominciare da capo. Anche a sinistra.

Sì beati. Perché loro un modo lo hanno trovato per mantenere qualche sicurezza e una relativa tranquillità. Ma chi – e sono tanti – non ci riesce più neppure quando la destra dà una prova così impietosa di se stessa? Chi assiste allibito alle performance guerriere del capo della sinistra francese? Chi non riesce a ritrovarsi nelle frasi fatte dei politici di sinistra frequentatori delle televisioni? Chi cerca invano nelle parole qualcosa che vada oltre la spazzatura della rissa? Loro si sentono fuori dal mondo. In balìa di una quotidianità impazzita. Avviene così che quando le Ediesse pubblicano un libro “La discorde amicizia”, un epistolario fra Fausto Bertinotti e Riccardo Terzi sullo stato di salute della sinistra chi si sente stanco e abbastanza amareggiato pensa di dare al libro giusto uno sguardo, solo perché conosce gli autori, l’editore e vuole vedere di che si tratta. Poi gli capita di leggerlo tutto d’un fiato quasi come era avvenuto qualche mese prima per la “Famiglia Karnowski” di Israel Singer e si chiede: come mai? Come mai mi appassiono di nuovo a un dibattito a sinistra?

Intanto – diciamolo subito – l’idea che due politici si confrontino non con delle mail, e neppure su Twitter o Facebook, ma si scrivano lunghe lettere, è discretamente affascinante. Un bel ritorno all’antico. Ci vuole forza per ribellarsi alla schiavitù dei 140 caratteri, all’angoscia della fretta e delle sintesi forzate.

Poi si tratta di Fausto Bertinotti e di Riccardo Terzi che chiunque abbia bazzicato un po’ la sinistra (non si pretende tanto da giovani lettori o giovani redattori) sa che più diversi non si può essere. Per cultura e per scelte politiche. Socialista lombardiano, comunista, rivoluzionario, segretario di Rifondazione, pacifista, il primo. Anche lui sindacalista migliorista milanese, critico, ma sempre interno al maggiore partito della sinistra anche quando le sue idee gli andavano piuttosto strette, il secondo. In comune hanno soltanto l’eresia, il non riconoscersi nelle idee dominanti a sinistra, la voglia di discutere, una discreta passione per la filosofia (oltre che per la politica, ovviamente). E un’amicizia, discorde, appunto, come recita il titolo del libro e che tale rimane, ma che è anche profonda proprio perchè non è fondata su affinità o diversità, ma su una comune ricerca, su un comune terreno di discussione.

E poi mette quasi di buonumore il fatto che in quelle pagine non si trovino insulti, contumelie, sarcasmi. Né verso gli amici-compagni, né verso i nemici-avversari. I due, che si conoscono da anni, all’inizio discutono addirittura se darsi del tu o del lei, se chiamarsi per cognome o per nome. E non è una discussione accademica. Il “tu” – si chiedono – oggi è simbolo di quella comunità accogliente e oppressiva come erano i vecchi partiti comunisti oppure degli uomini e delle donne delle moderne caste che si riconoscono e immediatamente familiarizzano? Naturalmente continuano a chiamarsi per nome ma è chiaro che non vogliono appartenere né alle vecchie né alle nuove caste.

Infine piace quel tono così diverso dalla discussione accesa, dal dibattito politico battagliero. La loro è una conversazione a cui si ha il privilegio di assistere, in cui l’ascolto dell’altro è importante quanto l’espressione delle proprie idee. E queste, fluendo finalmente prive di polemica gratuita, possono andare liberamente, giovandosi di ricordi comuni e di comuni dotte letture. Insomma il libro di Fausto Bertinotti e Riccardo Terzi può servire – pensa chi ha cominciato con un certo scetticismo la lettura – a scoprire se c’è un modo, una strada per continuare a dirsi di sinistra.

La speranza cade già dopo le prime lettere. Non si trova alcuna risposta rassicurante. Non emerge alcuna ricetta per superare le difficoltà. Non c’è alcuna consolazione all’amarezza. E non perchè i due siano reticenti o conformisti. Ma perché una soluzione non ce l’hanno neppure loro. Il merito della loro conversazione non sta nel dare speranze ma nello sforzo ostinato di cercare l’origine della difficoltà (impossibilità?) di essere sinistra, di essere “di” sinistra. Di sciogliere almeno in parte quelli che il filosofo francese Jean-Claude Michéa non esita definire, come recita il titolo del suo ultimo libro “Le mystères de la gauche” (ed. Climats). Anche Michéa afferma “… che il nome di sinistra – in altri tempi così glorioso – non sembra più veramente in grado oggi di giocare un ruolo federatore né di conseguenza di esprimere efficacemente l’indignazione e la collera in continuo aumento delle classi popolari”.

I due, il rivoluzionario Bertinotti e il riformista Terzi sono d’accordo su un punto, forse su uno solo: oggi la marginalità della sinistra nasce dalla adesione acritica praticata nei confronti della governabilità, della stabilità del sistema. Ed è, in fondo, anche se in termini meno ideologici la stessa conclusione di Michéa quando si chiede provocatoriamente “se la sinistra non sia lo stadio supremo del capitalismo” e se questo alla fine determini “la difficoltà drammatica nella quale si trovano tutti coloro che ancora si riconoscono nel progetto di una società libera egualitaria e fraterna”.

Bertinotti ne trae le conseguenze. Con questa sinistra non c’è niente da fare, la cosa migliore sarebbe la sua scomparsa, il big bang, la distruzione di tutto. Solo le macerie possono consentire di eliminare equivoci, compromessi, false ideologie e di ricominciare da capo. Non è detto che ci si riesca, ma rimanere nel simulacro della falsità è la cosa peggiore. “Bisogna saper tirare una riga, altrimenti il morto continuerà a mangiarsi il vivo”, afferma senza tanti giri di parole.

Neanche a Riccardo Terzi, il riformista pensieroso, piace questa sinistra. Anche lui è convinto che abbia fallito. E nel modo più completo e profondo. “Nel mondo post ideologico – dice – non c’è più spazio per il pensiero, per un progetto che vada oltre i dati della realtà, oltre i rapporti di forza dominanti. E la politica finalmente liberata dal peso delle ideologie, diviene l’arte del galleggiamento, dell’adattamento al corso necessario delle cose”. Analisi spietata e poi la conclusione: “Se la sinistra accetta di subire questo svuotamento, se diviene non il principio di un nuovo ordine, ma un tassello dell’ordine esistente, allora vada pure al diavolo”. Distruggere tutto quindi? Di questo Terzi non è convinto. Quando mai la distruzione senza idee, senza un progetto per il futuro ha creato qualcosa, ha fatto crescere idee, proposte consapevolezza? Se mai c’è da intraprendere un processo di costruzione duro, durissimo che riguarda tutti, non solo qualcuno, i politici o gli intellettuali.

Essere di sinistra è evidentemente difficile anche per Bertinotti e Terzi che in questa sono vissuti e che di essa hanno fatto ragione di vita. Nella loro discussione c’è però una ostinazione, quella di chi è abituato a indagare e non accetta di non capire. Perché siamo a questo punto? Che cosa è successo? E’ successo spiega l’ex segretario di Rifondazione che il capitalismo finanziario europeo ha costruito un recinto in cui sia governi nazionali sia la sinistra sono soggiogati a un vincolo esterno che li condiziona, li sovrasta, li sovraordina. E’ un sistema irriformabile da cui la sinistra è interamente posseduta e che sta uccidendo – ha già ucciso – la democrazia. Le forze vitali – avverte Bertinotti – sono già fuori dal circuito della democrazia rappresentativa. Ma no, risponde Terzi, questa situazione della sinistra e più in generale della politica non è l’effetto devastante di una macchinazione eversiva, ma è il prodotto desolante di ciò che la politica ha saputo offrire in questa fase. “La difficoltà sta proprio nel fatto che non c’è un nemico da battere, individuato, circoscritto ma c’è da operare una generale riconversione del nostro modo di pensare e di vivere”.

Forse hanno ragione tutti e due. Anche se il primo (Bertinotti) non demorde e cerca nella realtà i fili d’erba, i piccoli indizi dai quali si può già intuire la possibilità di una nuova costruzione. E non rinuncia pur nel pessimismo più ampio, all’utopia, al sol dell’avvenire, a sperare nel conflitto che rimetta tutto in discussione che faccia ritornare il protagonismo di chi oggi non si vede più. Lui vede con qualche soddisfazione l’avvento dei nuovi “barbari”, di coloro che sono esclusi dall’impero e quindi non lo amano e non ne sono soggiogati.

Riccardo Terzi non apprezza l’utopia, pensa che sia avversaria del fare e del pensare oggi, hic et nunc, sia sinonimo di velleitarismo e di astrazione. E non le piace neppure una certa “vertigine della sconfitta” che vede affiorare qua e là a sinistra.

Eppure dei due è proprio quest’ultimo a essere meno pessimista. E’ Terzi che all’affermazione perentoria di Bertinotti “la sinistra non c’è più” risponde: “Io non posso dire che non c’è perché essa non si riduce alle forme politiche esistenti, alla loro fenomenologia contingente”. Fausto Bertinotti – è evidente – ha elaborato un pensiero definitivo. Alla fine per chi non riesce più a capire come rimanere a sinistra l’epistolario almeno una ragione di soddisfazione (magra a dire il vero) la dà. La difficoltà, la delusione, l’amarezza non sono solo frutto di una malinconia esistenziale o, peggio, di una senilità che non vuole riconoscersi. E’ il frutto amaro di una realtà che nelle sue trasformazioni ha espulso, sta espellendo la stessa idea di sinistra. E allora dirselo ha almeno un valore liberatorio, è un segno di lucidità.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Ritanna Armeni, 20/9

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