Berlino e Londra tagliano le tasse e riducono i sussidi.

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Qui mai. Fuori dalla linea europea

La parola più utilizzata da Enrico Letta nel discorso della fiducia è “governo”: compare ben 43 volte. Un altro termine, invece, trova molto meno spazio: si tratta di “tasse”, citato appena 5 volte. Lo scarso peso attribuito alla questione fiscale nell’intervento del premier, del resto, trova perfetto riscontro nell’assenza di una strategia dell’esecutivo verso la loro riduzione. Una mancanza che pone il nostro paese non solo in netto contrasto con gli stati più dinamici dell’Unione europea, ma anche su una traiettoria inerziale di degrado degli incentivi a investire e, in ultima analisi, di impoverimento. Dove ci sono figure politiche forti, con un disegno chiaro in testa, la musica è assai diversa. In Germania, per esempio, Angela Merkel, che nel precedente mandato si era qualificata come rocciosa guardiana dell’austerity, oggi ritiene vi siano le condizioni per alleggerire il peso dello stato; certo, complice la recente campagna elettorale, ma la strategia è chiara. Oppure in Gran Bretagna.

Nel suo ultimo discorso di fronte ai Tory David Cameron ha tuonato che “profitto, creazione di ricchezza, taglio delle tasse e imprese non sono parole sporche” e si è coerentemente impegnato a tagliare ulteriormente le imposte per le “persone che lavorano sodo”; il primo annuncio stende il tappeto rosso per gli investitori esteri (che già hanno investito nell’economia britannica “terra d’opportunità” secondo Cameron 66 miliardi di euro, in Italia 12), il secondo indica un ulteriore snellimento dello stato sussidiatore (con una riduzione dei sussidi pubblici per i giovani al fine di aumentare l’occupazione). Tutto questo dopo aver già abbattuto l’aliquota marginale sul reddito dal 50 al 40 per cento, alzato la soglia della “no tax area” e messo in moto il processo per la riduzione dell’aliquota sul reddito d’impresa dal 21 al 20 per cento.

Il nostro paese, invece, si distingue in Europa per una pressione fiscale sempre crescente, manovre di aggiustamento tutte giocate dal lato del prelievo e l’incapacità di mettere seriamente mano alla spesa (siamo al terzo annuncio di uno “studio” per la spending review in due anni, ma i tagli non ci sono). E così, ci troviamo sul podio sia per la pressione fiscale sul lavoro (l’aliquota implicita è la seconda più alta dell’Ue), sia sui redditi da capitale (siamo quarti). La nota di aggiornamento al Def, divulgata pochi giorni fa dal Tesoro, vede le entrate tributarie in impennata dai 472 miliardi di euro del 2012 a 531 miliardi attesi nel 2017, a cui si aggiungeranno contributi sociali a loro volta in crescita da 217 a 240 miliardi. Questi numeri descrivono la paralisi politica. Se il governo non ha la forza di cambiarli, la decantata stabilità va intesa come sinonimo di stagnazione soprattutto se agli investitori stendiamo un tappeto di chiodi fatto di burocrazia e tasse. Il Foglio 4/10