L’Europa grancoalizionista prova a seppellire

Categoria: Firme

 le minoranze intransigenti.  Altro che Tea Party vs. Obama,

qui le larghe intese spopolano. Così si digerisce il rigore, ma le riforme stagnano

L’“intransigenza” in politica ha una propria razionalità e pure i suoi benefici, ha scritto Sam Tanenhaus sul New York Times, decrittando il confronto su bilancio e debito in corso negli Stati Uniti tra il presidente Obama e i repubblicani filo-Tea Party, con la riscoperta della “politica di principio” responsabile dello stallo statunitense. In Europa però, perlomeno in questa fase, lo spirito del tempo pare essere un altro. In Italia l’invocazione della “stabilità” fa rima con la tenuta a tutti i costi delle larghe intese, e il modello grancoalizionista fa proseliti, al punto che 9 paesi sui 17 dell’Eurozona lo hanno fatto proprio (contando nel gruppo anche la Germania, dove gli accordi tra Cdu, Spd o Verdi sono in via di definizione). Le minoranze rumorose e intransigenti qui restano ai margini.

“La paralisi statunitense è prevista dal sistema istituzionale stesso di quel paese, dove rappresenta un caso estremo di bilanciamento tra poteri esecutivo e parlamentare. Quel che è certo è che in Europa in questo stesso momento si predilige l’obiettivo di una ‘democrazia mite e serena’, per usare l’espressione di Arend Lijphart”, dice al Foglio Raffaele De Mucci, docente di Sociologia politica all’Università Luiss di Roma. De Mucci, che con il politologo olandese ha collaborato, sostiene che i governi di larghe intese che oggi caratterizzano l’Europa possono avere origini contingenti diverse, ma sono accomunati da una caratteristica che Lijphart ascriveva alla “democrazia consensuale” e non a quella “maggioritaria”: “Soprattutto nelle situazioni di emergenza, come la crisi economica che attraversiamo da anni, governare con più consenso è ritenuto utile. Sicuramente è più remunerativo per i partiti di quanto non sarebbe restare nella dialettica governo-opposizione. Più remunerativo nel senso che il prezzo delle decisioni è condiviso e quindi contenuto – dice De Mucci – In Italia, per esempio, ha pesato la frammentazione del risultato elettorale, ma anche il fatto di dover prendere provvedimenti utili a fronteggiare la crisi e in parte impopolari”. Le politiche di rigore e “un certo livello di narcotizzazione sociale” vanno a braccetto. Così il modello che Lijphart iniziò ad analizzare in Olanda e Belgio adesso attecchisce in parte anche in Austria, Finlandia, Grecia, Irlanda e via dicendo: “D’altronde il politologo olandese, oltre a descrivere i due idealtipi di ‘democrazia consensuale’ e ‘maggioritaria’, ha sempre sostenuto che la prima fosse la forma più efficace per governare”, conclude De Mucci che per Rubbettino ha appena pubblicato il libro “Democrazia dissociativa”.

Paolo Manasse, professore di Economia all’Università di Bologna, individua una “tendenza alla polarizzazione ideologica” in corso anche in Europa, ma conferma una tendenza di fondo: “Complici il sistema elettoral-istituzionale di molti paesi e i suoi risultati non sempre netti in un senso o nell’altro, in Europa le grandi coalizioni sono frequenti”. Teoricamente le stesse larghe intese vengono strette “per fronteggiare le politiche di rigore fiscale”, ma nella pratica i risultati sono tutt’altro che assicurati: “Analisi economica e buon senso suggeriscono che, fatta eccezione per i casi in cui si procede alla ricostruzione di un paese dopo una guerra o un altro evento traumatico, i governi di grande coalizione comportano un maggiore interventismo dello stato nell’economia e una lievitazione del debito pubblico relativamente più pronunciata”. Insomma, per farsi forti di fronte all’austerity concordata a livello europeo, i principali partiti si stringono assieme, dirigendo verso il centro, ma per paradosso raggiungono con maggiore difficoltà gli obiettivi di risanamento: “Sull’aumento generalizzato delle imposte i partiti possono trovare un accordo perché i costi politici delle tasse sono diffusi. Gli esempi del governo Letta finora, e quello di Monti che pure era diverso e ha raggiunto dei risultati in una fase emergenziale, lo confermano per l’Italia. I tagli alla spesa pubblica colpiscono gruppi specifici, dalla sanità alla Pubblica amministrazione passando per gli imprenditori sussidiati, e quindi creano divergenze fra i partiti coalizzati cui questi gruppi sono più legati. Le riforme più importanti sul mercato del lavoro, quelle sul diritto di licenziare e soprattutto quelle che legano salario e produttività – dice Manasse – in Europa le hanno fatte governi con una maggioranza parlamentare e ideologicamente coesi, dalla Thatcher nel Regno Unito a Schröder in Germania”. Mettere da parte l’“intransigenza” a tutti i costi, insomma, può creare una “distorsione che magari riduce i disavanzi ma aumenta le tasse”. E allora l’appuntamento con i “ribelli con una causa”, come li chiama Tanenhaus negli Stati Uniti, potrebbe essere soltanto rinviato.

FQ.di Marco Valerio Lo Prete   –   @marcovaleriol, 8/10