Fantapolitica. La Legge di stabilità

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del governo Letta è una furbata. Ecco perché

Non resistendo alla tentazione di commentare la Legge di stabilità proposta, almeno nelle sue linee generali, dal governo, ci troviamo di fronte al problema di capire quale sia l’approccio più adatto. Cosa solo apparentemente semplice. Un primo approccio, che tuttavia non è nelle nostre corde, è quello che potremmo definire “scettico-politico”. Secondo questo approccio, non vale la pena commentare alcunché, perché, se il governo va avanti, la Legge di stabilità verrà completamente riscritta in Parlamento, nei contenuti se non nei saldi. Come avvenne nel 2012 con il governo Monti. Un secondo approccio lo si potrebbe definire “tecnico-saccente”, al quale gli autori di questa colonna sono fatalmente sensibili, per “vizio professionale”, ma del quale si sforzano di non abusare. Adottando questo secondo approccio il commento più corretto sarebbe quello di sospensione del giudizio, dato che le varie stime di spese e coperture, di tagli e tasse, che compongono il documento sono di tale insignificante entità da rientrare nei margini dell’errore statistico insito in ogni previsione. In altri termini si tratterebbe di una scelta di non manovra.

Più interessante, tuttavia, è un terzo approccio, che chiameremo di “fantapolitica”, in base al quale potremmo chiederci: quale è il disegno nascosto, la vera ideologia che si cela dietro questa manovra? Forse, senza che ce ne siamo accorti, ci troviamo di fronte al primo governo “ultraliberista” della storia repubblicana – il cui primo precetto è non fare nulla, cioè non intervenire nella spontanea evoluzione dei mercati con interventi di politica economica (cosa che non impedisce di cercare di amministrare bene la macchina pubblica e adottare provvedimenti anche molto utili). La furbizia in questo caso consisterebbe nel celare una tale rivoluzione facendo finta di accontentare, con segnali equilibrati ma accuratamente privi di reale incidenza, e quindi proprio per questo motivo innocui, non tanto gli elettorati dei partiti di maggioranza quanto le corporazioni di riferimento che tali elettorati pretendono di rappresentare. Così si spiegherebbe l’annuncio che la pressione fiscale sarà ridotta di un punto percentuale nel triennio, attraverso vari canali, e così continuando. L’unica attenzione sarebbe quella di non mutare sostanzialmente la traiettoria di discesa o di mantenimento del deficit pubblico per evitare distorsioni da deficit spending. Quale sarebbe allora la strategia sottostante? I segnali di ripresa spontanea dell’economia, a legislazione vigente, vengono solo dall’uscita dell’Europa dalla recessione, e ciò accredita un possibile arresto della discesa del pil in Italia e una crescita tra lo zero e l’uno per cento nel prossimo anno. Il che vuol dire un ulteriore aumento della disoccupazione, a meno che non si ipotizzi una nuova caduta della produttività del lavoro. Ciò non vuol dire che la ripresa, prima o poi, non verrà. E quando ciò accadrà qualcuno dirà “io l’avevo detto”. Anche i mercati si aggiusteranno e l’Italia recupererà competitività in alcuni di questi mercati. Anche perché l’ampliarsi della disoccupazione non potrà non portare a riduzioni dei salari reali, e all’accettazione di fatto di nuove regole del mercato del lavoro, contrattate tra aziende e lavoratori in barba a sindacati e Confindustria che si attardano a cercare soldi dallo stato per risolvere i loro problemi. E la distruzione di settori produttivi creerà spazio per nuove imprese innovative e dinamiche. Ciò accadrà, accade anche dopo le guerre, anche se è difficile fare previsioni.

D’altra parte, non ci hanno ammonito i teorici delle aspettative razionali che è futile cercare di fare previsioni? Vedete che rispuntano gli ultra-liberisti? Oltretutto creano cortine fumogene che traggono in inganno gli stessi liberisti ingenui che si fanno distrarre dalle vicende Telecom e Alitalia, spingendoli a reazioni che il governo potrà usare come copertura contro i possibili attacchi degli interventisti ultra-keynesiani. Si potrebbe obiettare che una politica liberista del “lasciar fare” è curiosa, anche per un liberista, se applicata in un sistema ancora fortemente intriso di corporativismo, e con un livello di pressione fiscale non propriamente da stato minimo. Questo richiederebbe semmai un liberismo interventista, anziché flemmatico. Altrimenti la fede nei mercati non porterebbe da nessuna parte. Obiezione importante, ma che richiede un confronto con la realtà. Fin quando rimarremo nell’ambito del controllo dei decimali di deficit (quella che abbiamo chiamato la macroeconomia dei decimali) non c’è spazio per altre politiche, se non chiamando anche le corporazioni a fare la loro parte, anziché limitarsi a chiedere sgravi fiscali, mettendo in discussione seriamente, ad esempio, orari di lavoro e composizione dei prelievi fiscali. Serve uno choc energico dal lato dell’offerta, inutile ripetere come, sulla cui base poter contrattare con l’Europa maggiore spazio per rilanciare la domanda. Se non c’è accordo su questo, non c’è alternativa all’“ultraliberismo”.

FQ.di Ernesto Felli e Giovanni Tria, 18 ottobre 2013 - ore 12:05