Il ritorno dello Stato. Mariana, la nuova star:

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solo l’interventismo pubblico ci salverà

Se gli spiriti animali languono esausti come i mangiatori d’oppio di De Quincey, se il cavallo non beve nonostante tutta l’acqua che gli hanno versato, se i 4.700 miliardi di dollari rovesciati dalle Banche centrali nelle aziende di credito, nelle imprese, nelle tasche delle famiglie, non sono riusciti a far ripartire davvero le economie occidentali, ebbene bisogna inventarsi qualcosa di nuovo. O forse d’antico. Il volto è nuovo, intelligente, glamour, occhi brillanti e chioma fulva, sorriso ampio ed energetico da eroina goldoniana. Si chiama Mariana Mazzucato, è una donna italiana cresciuta negli Stati Uniti e trapiantata a Londra, non una econo-star, ma quasi. Lilli Gruber l’ha invitata una settimana fa a “Otto e mezzo” dove ha duellato con Michele Boldrin. Sembrava una riedizione di Beauty and the Beast nel senso che Boldrin difendeva la “bestialità” del mercato e la Mazzucato l’armonia di uno stato che si fa imprenditore. Perché la ricetta, quella che ha sapore d’antico, è proprio questa.

“Le innovazioni che hanno consentito la rivoluzione dell’information technology, ma anche quelle che hanno fatto sì che Steve Jobs creasse i suoi prodotti più smart, ebbene tutte vengono da ricerche pubbliche, da programmi statali, molti di loro addirittura militari”, dice la Mazzucato. Cosa c’è di inedito? E’ ben noto che fu la rete Arpanet a tenere in grembo internet, il touch screen, il Gps, gli algoritmi di Google, l’ingegneria genetica (negli Stati Uniti si spendono 32 miliardi di dollari l’anno per l’innovazione biomedica). Ma tutto questo, secondo la professoressa dell’Università del Sussex, fa cadere totem e tabù eretti dalla (contro)rivoluzione neoliberista. Lo stato non è un retaggio del passato, innova e si rinnova; non è un freno ma al contrario è il motore di ogni salto tecnologico; non è il barelliere che raccoglie morti e feriti dalla distruzione creatrice del mercato, bensì si fa attore in prima persona. Guai a rappresentarlo con le fattezze mostruose del Leviatano, assomiglia piuttosto a uno Steve Jobs collettivo.

“The Entrepreneurial State”, il libro che ha lanciato Mariana Mazzucato, è uscito nel giugno scorso, ma è frutto di un lungo lavoro per rivalutare il ruolo dello stato nel capitalismo moderno, compiuto con il think tank Demos, a sua volta parte di un progetto della Fondazione Ford chiamato Reforming Global Finance. Insomma, siamo nel cuore del sistema, non in un pensatoio gauchiste. E la stessa Mazzucato, nonostante penda decisamente verso i laburisti, viene consultata regolarmente dai conservatori a Westminster e a Downing Street. David Cameron l’ascolta per capire come rilanciare la “Little England” (definizione dell’Economist). Se prendiamo la classifica delle multinazionali, del resto, vediamo che tra le prime spiccano i colossi di stato (cinesi, russi, brasiliani) e anche grandi banche e imprese industriali occidentali nelle quali i governi hanno un ruolo attivo.

Il volume ha avuto una recensione positiva di Martin Wolf sul Financial Times: “Una brillante esplorazione di nuove idee”. Secondo Dani Rodrik (Harvard), è proprio quel che richiedono i nostri tempi che hanno sdoganato la politica industriale. Lord Adonis, una delle teste d’uovo di Tony Blair e Gordon Brown, si dice “totalmente convinto” dall’analisi della Mazzucato. L’ha presa sul serio anche l’Economist, seppur sommergendola di critiche in chiave “mercatista”. La professoressa si gode il suo momento di fama girando come una trottola tra una conferenza e una intervista, di qua e di là dell’Atlantico. A sentirla parlare, ancor più che a leggere la sua prosa, si resta coinvolti dall’intelligenza e dallo charme. Il volume è ricco di esempi con un taglio da economista industriale. Ma non è privo di eroici furori. “La mano dello stato è ferma, ma non pesante, fornisce la visione e la spinta dinamica”. Naturalmente lo stato imprenditore “non deve inchinarsi ai gruppi d’interesse”.

E lo stato imprenditore, secondo Mazzucato, richiede “una missione, una visione, ma anche fiducia”. “Jobs nella sua carismatica lezione a Stanford nel 2005 ha detto che per gli innovatori c’è bisogno di restare affamati e folli, pochi ammettono quanta di questa follia cavalca le onde delle innovazioni pagate e dirette dallo stato”.

La Mazzucato è nata a Roma nel 1968, da genitori padovani, ma si è trasferita molto presto a Princeton nel New Jersey dove il padre ha lavorato come fisico nucleare. Parla un buon italiano, mescolato qua e là all’american english, ed è una habituée alla Bbc per discettare sul debito italiano o sulle dimissioni di Berlusconi. Dice dell’Italia: “Non solo lo stato ha frenato la spesa destinata a produrre competenza e ricerca, ma il settore privato è inerte, anche per questo motivo; là dove lo stato spende anche i privati s’impegnano in progetti costosi”. Per la verità il governo spende e spande (non sembra davvero in ritirata se si guarda al bilancio pubblico) e molto spesso lo fa per salvare i privati. “Dove sono le nuove Olivetti? La Nuova Iri?”. Si chiede. La prima è una storia di progressiva ritirata dei capitalisti. La seconda è stata chiusa perché i contribuenti ogni anno pagavano a piè di lista i suoi debiti. La professoressa se la prende anche con la Fiat che non investe in motori nuovi. Forse intende i motori elettrici, incentivati da molti governi. Ma qui si entra in uno dei punti deboli della sua analisi.

La Mazzucato esalta il ruolo pubblico nella riconversione verso “l’economia verde”. Ebbene proprio in questi mesi l’eccesso di sovvenzioni alle fonti rinnovabili ha provocato in Germania una vera crisi energetica, mettendo in ginocchio colossi elettrici come Eon. “Perché non ha elencato anche tutti gli investimenti sprecati dai governi nel tentativo di tenere in piedi progetti poco economici?”, la bacchetta l’Economist. Di quante finte Silicon Valley pagate dai contribuenti sono lastricate le pianure europee?

Formata in ottime scuole e con numerose esperienze alle spalle (anche alla Bocconi), certo non le manca la conoscenza della materia. Ma il suo entusiasmo la spinge a dimenticare che dal complesso militar-industriale denunciato da Dwight Eisenhower al Nuovo stato industriale teorizzato da Kenneth Galbraith, la letteratura anglo-americana è piena di analisi e discussioni sul ruolo attivo e innovatore di una mano pubblica che crea le condizioni perché la mano invisibile del mercato sviluppi le sue energie. Una cosa, però, è dire che lo stato fornisce gli ingredienti e apparecchia la tavola, un’altra è sostenere che si possa sostituire all’imprenditore nel creare piatti appetitosi e salutari, combinando il bello e l’utile. Jobs è unico e non si replica.  

Non solo. Ai tempi di Eisenhower e Galbraith, lo stato aveva una dimensione nazionale, per quanto grande. Difendeva la propria valuta, controllava il flusso di capitali indirizzandolo verso i propri interessi, proteggeva le industrie strategiche. Perché il ritorno dello stato imprenditore s’accompagna inevitabilmente a robusti limiti al libero scambio e alla globalizzazione. “La fine del laissez faire”, del resto, è uno dei testi di John M. Keynes più citati dalla Mazzucato. E’ probabile che il mondo si stia già muovendo in questa direzione: secondo l’Economist ovunque si costruiscono castelli e fortilizi. E l’ironia della storia mostra che la critica da sinistra al mercato provoca per lo più ritorni conservatori, neocorporativi, protezionistici. Tira un’aria non da Nuova frontiera anni 60, ma da primo Dopoguerra.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Stefano Cingolani, 21 novembre 2013 - ore 06:59