Il renzismo spiegato a D’Alema

Categoria: Firme

Ventuno ragioni (anche frivole) per cui i nostalgici

della sinistra medievale non capiscono Renzi

Ambizione. Finalmente Renzi l’ha sdoganata anche a sinistra! Non che i leader della sinistra, specie quelli di tradizione comunista, non fossero ambiziosi. Altroché, se lo erano! Solo che non si poteva dire. L’ambizione era una specie di perversione borghese. Andava tenuta taciuta, come le tante cose che dovevano essere taciute ancorché alimentassero, molto più di quanto fosse manifesto, un potere spesso ipocrita e provinciale.

Bipolarismo. Dopo le dimissioni di Veltroni, il Pd aveva dismesso i panni bipolaristi. La bocciatura di Prodi da parte dei 101 ha rappresentato il culmine di una tenace offensiva proporzionalista che oggi, con l’esperienza del governo Letta, s’incarica ancore di scomporre e ricomporre il quadro politico in chiave neocentrista. Renzi ha messo la forza del suo enorme consenso personale al servizio del bipolarismo e i proporzionalisti di sinistra sono tornati a tremare.

Comunicazione. Considerata da Bersani un epifenomeno della politica, una sovrastruttura fastidiosa da esorcizzare caricaturizzandola, con Renzi è tornata la comunicazione a essere quello che è: l’altra faccia della politica. Lo diceva anche Gramsci che, chi distingue tra elaborazione della soluzione politica e costruzione del consenso intorno a quella soluzione, non capisce nulla di politica. E così scopriamo un Renzi molto più gramsciano degli smacchiatori di giaguari di ieri, di oggi e di domani.

Decisione. La decisione democratica oggi deve essere più veloce e più trasparente. Abbiamo bisogno di più delega (non di meno delega) per la rappresentanza e per il governo, ma possiamo ottenerla solo se le performance della politica potranno essere più facilmente verificate dai cittadini deleganti. Contro ogni feticcio assemblearista, solo una nuova generazione può rilanciare la decisione come fine  della politica.

Entropia. Non c’è leader oggi in Italia che riesca, meglio di Renzi, a servirsi di quel disordine che circonda la politica. Ogni fase di passaggio si contraddistingue, storicamente, per una forte entropia. Per molti, un problema da gestire. Per quelli più rapidi sulle gambe, una potenzialità da sfruttare. Precisando dove si vuole andare, l’entropia dilagante nel dibattito pubblico, che mescola valori, bisogni e interessi, può essere un formidabile motore turbo.

Finanza. Altra parola sdoganata da Renzi nel dibattito pubblico, a sinistra come a destra: di finanza oggi si può finalmente cominciare a parlare! Esempio: chi, prima di Renzi, nel Pd osasse considerare una follia che la quarta banca italiana fosse gestita dal consiglio comunale di Siena, era subito tacciato di eresia e ricoperto di pomodori marci, acquistati e lasciati marcire apposta (riferisco per esperienza diretta e personale). Oggi si può dire. E si può discutere del ruolo cruciale della finanza in un’economia di mercato. Tirando fuori l’ex innominabile finanza dal cono d’ombra in cui era stata cacciata certo dalle proprie degenerazioni, ma anche dalle reticenze e alle compromissioni della politica.

Giustizia. La linea sulla giustizia (civile e penale) è dettata alla sinistra italiana, da almeno una ventina d’anni, da un’associazione di giudici denominata Magistratura Democratica. Un recupero di autonomia del ruolo della politica è una priorità che Renzi si è già dato in generale. Un’urgenza che in questo caso è ancora più pressante considerata la sempre più bassa efficienza del servizio giustizia (civile e penale). E il garantismo e la Cancellieri non c’entrano nulla, perché la sua ormai famosa prima telefonata è una cosa fuori dalla grazia di Dio.

Hope. A Hope, cittadella di neppure ventimila abitanti della Contea di Hemspstead, in Arkansas, Bill Clinton c’è addirittura nato 67 anni fa. Barack Obama ha fatto della parola hope il suo vessillo. Renzi insiste molto sulla necessità che la politica recuperi la dimensione della speranza. Dovesse riuscire lui a fargliela recuperare, realizzerebbe davvero un piccolo capolavoro.

Italiani. Renzi vuole recuperare i 3 milioni e mezzo di voti democratici persi da Bersani lo scorso febbraio. Non pago, dichiara di ambire ai voti grillini. Alle scorse primarie invitò gli italiani che avevano votato per Berlusconi a scegliere il suo Pd. Una spiegazione perfetta di quella che, in altri tempi, si chiamò vocazione maggioritaria. Renzi pretende di parlare a tutti gli italiani, non solo a quelli di (molto) ipotetici blocchi sociali. È una piccola rivoluzione copernicana, che punta a scrollare di dosso alla sinistra italiana il nauseabondo feticcio della superiorità etica e quel minoritarismo un po’ sfigato in cui molti ancora oggi vorrebbero tenerla reclusa.

Leadership. Che bella cosa la leadership! Che bella parola! Che belli che sono i grandi leader! Quale miscuglio di ipocrisia e mediocrità può arrivare a negare il ruolo della leadership! Quale pochezza culturale! Il Pd eleggerà con le primarie un leader: un segretario che è anche il candidato premier. Rubalcaba è oggi il capo del Psoe e il candidato premier (Zapatero ieri era il capo del Psoe e il capo del governo). Ed Miliband è il capo del Labour e il suo candidato premier (Blair e Brown erano ieri premier e leader laburisti). In Francia il capo dei socialisti è Hollande e il nome del segretario del partito nessuno lo conosce. Così negli States. L’Italia somiglierà a questi paesi grazie alla norma statutaria del Pd (art. 3 comma 1) che fa coincidere leadership e premiership. E grazie al fatto che ha un vero leader da poter gettare nella mischia. Certo c’è l’eccezione della Germania: ma l’Spd non è oggi un partito da cui imparare alcunché (e, viceversa, la Cancelliera Merkel è anche il capo del suo partito…).

Merito. Torna in gioco la martelliana alleanza tra i bisogni e i meriti, e i capaci e i meritevoli dell’articolo 34 della Costituzione finalmente hanno qualcuno da poter votare alle elezioni. Se non c’è nessun blocco sociale da rappresentare, ci sono diverse dinamiche sociali da intercettare e coordinare. L’egualitarismo straccione, quello per cui tutti devono essere uguali alla meta, è forse il nemico più difficile da battere a sinistra. Renzi, come Blair ai suoi tempi, gli ha solennemente dichiarato guerra.

Nuovo. Allan Bloom, grande teorico conservatore, riconosceva: “Qualunque cosa pensino i conservatori, le tradizioni hanno avuto un inizio che non era tradizionale”. Mai è accaduto, come oggi, che così poco del vecchio sia in Italia da serbare. Il nuovo oggi non è un’opzione. E’ l’unica possibilità che abbiamo per non mandare l’Italia a gambe all’aria.

Organizzazione. Forse questa è la sfida più avvincente che Renzi e il nuovo gruppo dirigente del Pd si troveranno a giocare: ripensare il modello organizzativo della forma partito. L’organizzazione politica ha vissuto, negli ultimi vent’anni, una degradazione a mera funzione esecutiva da parte dei sostenitori del partito pesante, altrimenti detto partito-polpetta. Una violenza all’interdetto gramsciano per cui la politica è, ad un tempo, dirigere & organizzare. Che spetti a Renzi mettere a posto le cose è una mirabile ironia della storia.

Parricidio. Umberto Saba scriveva che gli italiani sono fratricidi: “Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani… Gli italiani sono l’unico popolo che abbiano, alla base della loro storia, o della loro leggenda, un fratricidio. Ed è solo col parricidio, con l’uccisione del vecchio, che si inizia una rivoluzione”. Prosit.

Quest. La Quest, monosillabo inglese, è la più nota modalità di stile narrativo: un viaggio alla ricerca di qualcosa. Dal Sacro Graal al Signore degli Anelli, dagli Argonauti al “Giovane Holden”, moltissime grandi storie sono state raccontate secondo questo schema drammatico. Il renzismo si è già messo in scia di questo schema. Al ritrovamento di quel “qualcosa” di cui è alla ricerca è legato indissolubilmente il suo destino.

Rottamazione. Eugenio Montale voleva inizialmente intitolare Rottami la sua prima raccolta di versi, che poi pubblicò per Gobetti col celebre titolo Ossi di seppia. Più di recente, negli anni Novanta, la rottamazione ha dato effimero ossigeno a una Fiat lontana dalla modernizzazione marchionniana. Oggi “rottamazione” è parola renziana per definizione. Parola cacofonica, urticante, brutta, è stata la più grande intuizione politica degli ultimi anni. L’oligarchia gerontocratica italiana si guarda per la prima volta le spalle. Dev’essere una sensazione sgradevolissima per chi ha governato l’Italia in un eterno stagnante presente, come se un domani non dovesse mai esserci.

Sessantotto. Non è quella sessantottina la meglio gioventù. Semmai è la peggio: la più accidiosa, la più improduttiva, la più colpevole. Ci voleva Renzi per ribaltare il più vieto dei luoghi comuni nostrani. Se il Pd di Renzi dovesse riuscire a sviluppare una critica culturale radicale al dannunzianesimo sessantottino, avrebbe già fatto un dono tra i più preziosi all’Italia.

Trendy. Tutti a guardare il giubbotto di pelle di Renzi e la memoria torna a Dick Fosbury che, il giorno in cui a Città del Messico saltò l’asticella di schiena, mentre tutti saltavano ancora ventralmente, fissando il record del mondo e cambiando per sempre quella disciplina, aveva le scarpette di colore diverso. Chi si lasciò distrarre da quelle scarpette, non vide il salto che cambiò l’atletica leggera. Sarà pure trendy, il Renzi, ma perdersi il suo salto per spettegolare sul suo giubbotto alla Fonzie, sarebbe una gran bella figura da scemi.

Unità. Un partito esiste se vive di due elementi costitutivi: la battaglia delle idee e la ricerca dell’unità. Negli ultimi trent’anni a sinistra è prevalsa quasi sempre l’ossessione per un unitarismo senz’anima. Renzi dovrà di certo tenere unito il Pd per avere successo nel suo progetto di cambiamento. Ma non c’è unità produttiva che si possa raggiungere in un partito, senza aver prima ingaggiato una dialettica battaglia delle idee. Renzi, e la next generation che si stringe intorno a lui, ne hanno fatto un vero e proprio metodo di lavoro. Grazie al recupero della battaglia delle idee, il Pd somiglia finalmente ai grandi partiti cugini d’Occidente.

Vittoria. Contro ogni estetica della sconfitta, che a sinistra ha ispirato filmetti, romanzetti e canzonette (un intero universetto simbolico), anche la parola vittoria oggi è eletta a termine chiave del nuovo lessico politico. Elettori, militanti e iscritti non ne possono più di perdere e trovano in Renzi forse l’ultima chance di riscatto dopo dodici anni di sconfitte. Ci sarà da elaborare un’esegetica della vittoria, se finora le sconfitte sono state per lo più lette non tanto come esempi della propria inadeguatezza, quanto di quella del popolo italiano che non riusciva a capire e a seguire una sinistra illuminata (!).

Zuzzurellone. E’ l’accusa che viene rivolta a Renzi, quella di essere uno leggero, uno che scherza, giovanilista e superficiale, uno zuzzurellone. Per una politica che ha fatto della noia la propria attitudine più naturale, l’idea che uno possa essere indotto a usare un registro più simpatetico, fatto anche di battute e calembour, può risultare scandaloso. Ma in politica, come nella vita, insieme a ciò che dici, conta anche come lo dici. Per i greci politike techne era un dono di Zeus, mescola sapiente di due ingredienti: dike e aidos. Perché politico è colui che sa elaborare ordinamenti giuridici per organizzare lo stato (dike). Ma è anche colui che sa colpire gli animi col suo modo di porre gli argomenti (aidos). D’altronde, come scriveva Borges, siamo o no tutti greci in esilio?

di Antonio Funiciello, Il Foglio, 3 dicembre 2013 - ore 09:53

responsabile Comunicazione e Cultura del Pd (sostenitore di Renzi)