Al Viminale non si fidano del dopolavorista Alfano

Categoria: Firme

Lui, Angelino Alfano, si agita e si affanna, dichiara e rassicura,

ma lo capiscono pure le pietre che le forze di polizia – quelli con i caschi e quelli senza casco – non hanno alcuna intenzione di andare allo scontro con i forconi e con tutti i disperati che in questi giorni tengono sulla corda le piazze delle città e i caselli delle autostrade. Certo, la situazione resta formalmente sotto controllo: se i più facinorosi lanciano una bottiglia molotov la polizia risponde con i lacrimogeni, se i black bloc sfondano una vetrina i questori ordinano pur sempre una carica, ma morire per Alfano no, questo mai. Perché lui, il ministro dell’Interno, non ha alcun titolo per chiedere agli uomini del Viminale un impegno che vada oltre il minimo sindacale. Brucia ancora, in quei corridoi, il verminoso caso di Alma Shalabayeva, moglie di un dissidente kazaco, impacchettata e spedita, con la figlioletta di sei anni, nel suo paese d’origine, a disposizione di un regime che con le opposizioni non usa certamente né mazzi di rose né guanti di velluto. E brucia soprattutto il fatto che, subito dopo l’esplosione dello scandalo, quando i grillini presentarono alla Camera una mozione di sfiducia per sottolineare la gravità e le compromissioni di quel rimpatrio forzato, Alfano abbia accuratamente evitato di assumersi la benché minima responsabilità – “nessuno mi ha informato” – e abbia scaricato colpe e omissioni sui più alti funzionari del ministero, a partire dal suo capo di gabinetto. Uno schiaffo per i cosiddetti “apparati”, abituati a ben altri codici di comportamento fin dagli anni di Mario Scelba. Uno schiaffo che una macchina come quella del Viminale, improntata a una sorta di religione prefettizia, difficilmente avrebbe dimenticato.

E infatti non ha dimenticato. Si è visto in questi giorni. Alfano che avrebbe avuto tutto il tempo per organizzare i servizi necessari a prevenire molte delle tensioni legate alla protesta dei forconi, è stato quasi colto di sorpresa. Con l’aggravante che stavolta non potrà nemmeno addossare il disorientamento ai responsabili dell’ordine pubblico perché nei giorni in cui bisognava preparare un piano di contrasto, lui era impegnatissimo nell’organizzare nel territorio e poi negli studios della Tiburtina, il debutto in società del suo partito, quello fondato dopo la scissione del Pdl e che risponde alla sigla Ncd, Nuovo centrodestra.

Ecco, il rimprovero che gli “apparati” sollevano nelle stanze e tra i corridoi – sempre sospettosi, sempre diffidenti – del Viminale è sostanzialmente uno. Che Alfano, impegnato soprattutto come vicepremier e come leader di un partito che nasce, consideri la carica di ministro dell’Interno come un dopolavoro. Insomma che, anche quando si reca a Palermo per manifestare la solidarietà dello stato al pm Nino Di Matteo, insistentemente minacciato da Totò Riina, il boss stragista dei corleonesi, Alfano miri più ad accreditarsi come referente politico presso l’antimafia militante – quella che fu di Ingroia e che tiene ancora in ostaggio il suo fraternissimo amico Schifani, indagato per concorso esterno – che non a dare concrete risposte alla domanda di sicurezza che viene da Di Matteo e dagli altri magistrati più esposti sul fronte della lotta alla mafia.

Non è un caso che la proposta tirata fuori dal cilindro del ministro per assicurare tutela e agibilità a Di Matteo sia stata quella di farlo muovere dentro un “Lince”, il blindato in dotazione ai nostri militari in Afghanistan. Il magistrato ha elegantemente rifiutato: ovviamente si aspettava il rafforzamento della scorta, però con altri sistemi, magari meno eclatanti e meno appariscenti. Ma tant’è. Se il ministero dell’Interno non viene considerato un impegno a tempo pieno, gaffe come questa diventano incidenti ordinari. Con grande soddisfazione della mafia che, nella stralunata proposta del carro armato trova il contraltare ideale per ingigantire la sua vanità e la sua capacità di intimidazione.

© - FOGLIO QUOTIDIANO, 12 dicembre 2013 - ore 06:59