Banca D’Italia. Chi guadagna con il riordino

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della proprietà di via Nazionale. La valutazione dei «saggi».

Il ruolo delle grandi banche

di STEFANIA TAMBURELLO, Il Corriere della Sera, 30.1.2014

Il decreto riordina l’assetto proprietario della Banca d’Italia, che è un ente di diritto pubblico, dopo anni di discussioni e di tentativi andati a vuoto. Il primo passo per farlo è stata la rivalutazione del capitale rimasto fermo alla cifra – 300 milioni di lire - versata alla costituzione dell’Istituto, nel 1936.

La conversione in euro ha reso forse più evidente l’esiguità del valore pari a 156 mila euro, anche di fronte a quello delle altre banche centrali europee che si sono invece adeguate nel tempo. Il decreto propone quindi la rivalutazione di quei 156 mila euro a 7,5 miliardi. L’ammontare è stato definito direttamente dagli esperti della Banca d’Italia coadiuvati da 3 «saggi» - Franco Gallo, Andrea Sironi, Lucas Papademos - sulla base della rivalutazione di quella parte del capitale (che è minima rispetto al patrimonio complessivo della nostra banca centrale) legata all’attività cosiddetta di signoraggio, cioè quella di battere moneta e farla circolare. In altre parole, all’attività centrale originaria dell’ex Istituto di emissione. Tutto il resto, e soprattutto le attività istituzionali di politica monetaria, erano e sono fuori dal capitale rivalutato che il decreto prende in considerazione.

Al momento della costituzione il capitale di Bankitalia suddiviso in 300 mila quote di partecipazione nominative da 1000 lire ciascuna (convertite in 0,56 euro) era stato distribuito presso enti finanziari di rilevanza pubblica – assicurazioni, enti previdenziali, banche e casse di risparmio- cioè nella grandissima parte aziende che a seguito del processo di trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni e di privatizzazione dei primi anni Novanta, hanno cambiato pelle. In particolare le banche che oltre ad essere state privatizzate si sono riorganizzate e unite fra loro per restare sul mercato.

Il risultato è che le banche più grandi, come Intesa Sanpaolo soprattutto e poi Unicredit, si ritrovano in portafoglio quote rilevanti del capitale. Ecco perché il panorama degli azionisti di Bankitalia è privato (succede anche in altre banche centrali, Giappone, Usa in testa) ed ecco perché- appunto per evitare che ci siano soci troppo forti - il decreto prevede un tetto del 3% al possesso consentendo che sia la stessa Banca centrale ad acquisire la quota eccedenti, in via temporanea per rimetterli in tre anni sul mercato. Un mercato nuovo e limitato comunque a soggetti «idonei» indicati dalla legge e sui quali Palazzo Koch manterrà una sorta di potere di veto. C’è da dire che i partecipanti avranno diritto ad un dividendo per le loro quote da 25 euro ciascuna, un rendimento misurato sul valore come è stato finora, ma continueranno a non avere alcuna voce sull’attività istituzionale della Banca.

Chi guadagna dal riassetto? Certamente la definizione di un problema che si trascina da tempo fa piacere alla Banca d’Italia, ma anche lo Stato avrà i suoi benefici in termini di imposte sulle plusvalenze che le banche azioniste dovranno versare in base alle quote possedute. Queste ultime potranno beneficiare – e non sarà certo poco – della rivalutazione che rafforzerà i rispettivi patrimoni ed anche la possibilità di allargare l’attivo cioè i prestiti all’economia, legata appunto all’ammontare del capitale. Non lo potranno fare a valere sul bilancio 2013 e quindi non servirà per superare meglio gli esami della Bce in vista dell’avvio dell’Unione bancaria, ma su quello successivo. Per l’Italia comunque avere banche solide è un elemento di forza in Europa.