Il bello della diplomazia di Obama

Categoria: Firme

Soltanto il 4 per cento delle armi chimiche ha lasciato

la Siria

Damasco era prontissima a cedere l’arsenale davanti alla minaccia (durata poco) degli strike americani, ma ora vuole rinegoziare

Il grande accordo per la rimozione delle armi chimiche dalla Siria non sta funzionando per ora. Soltanto il quattro per cento dello sostanze più pericolose e un altro quattro per cento di sostanze classificate come appena meno pericolose hanno lasciato il paese. La quasi totalità dell’arsenale chimico non è ancora nemmeno partita dalle basi militari controllate dal governo del presidente Bashar el Assad e non è arrivata al porto di Latakia, dove in teoria avrebbe dovuto essere caricata su navi militari entro il 31 dicembre per essere poi incenerita su una nave speciale. Si tratta delle stesse sostanze usate nel bombardamento notturno del 21 agosto sulla periferia della capitale Damasco controllata dai ribelli anti Assad e in altri attacchi minori che hanno causato più di 1.400 vittime fra i civili. Le fonti diplomatiche che hanno parlato martedì al New York Times e mercoledì a Reuters imputano lo stallo a una scelta del governo siriano, che ha fermato le operazioni di trasporto adducendo a pretesto la poca sicurezza nei trasferimenti. Il calendario dello smantellamento era però stato concordato assieme e sia l’Opcw – l’organizzazione per la distruzione delle armi chimiche che lavora sul caso siriano – sia l’Amministrazione Obama non riescono a spiegarsi davvero il ritardo. Ieri l’Opcw ha rilasciato una nota del suo direttore generale che nelle conclusioni dice: dal 7 gennaio tutte le operazioni sono ferme. Il direttore generale ha scritto una lettera al vice-ministro degli Esteri siriano, Faisal Mikdad, il 14 gennaio, chiedendo conto dello stop e ricordando che Svezia e Danimarca sono preoccupate per i costi crescenti del trasferimento (le navi militari che poi dovrebbero trasferire le armi chimiche da Latakia a Gioia Tauro sono svedesi e danesi). La Siria ha risposto il 20 gennaio con una lettera, dicendo di essere preoccupata per la sicurezza delle operazioni e di avere bisogno di equipaggiamento, per esempio di mezzi blindati.

L’ambasciatore americano all’Opcw, Robert P. Mikulak, ieri ha scritto di “mercanteggiamento”. “Oggi siamo a un mese dalla scadenza del 31 dicembre e quasi nessuna delle armi chimiche di priorità uno (le più pericolose) è stata rimossa e il governo siriano non sta impegnandosi alla rimozione per nessuna data specifica. A questa situazione si aggiungerà tra poco il fallimento della scadenza del 5 febbraio per le armi chimiche di priorità due. La Siria sostiene che il ritardo nei trasporti è dovuto a preoccupazioni di sicurezza e chiede equipaggiamento ulteriore – come misure elettroniche e dispositivi per scoprire le bombe. Queste domande sono senza merito e mostrano una mentalità diretta al mercanteggiamento, non alla sicurezza”.

Ieri anche il segretario della Difesa americano, Chuck Hagel, in visita in Polonia, ha detto di essere preoccupato per il ritardo nelle operazioni non ancora giustificato dai siriani. E’ l’ammissione di più alto livello che l’accordo a tre negoziato da Amministrazione Obama, governo russo e assadisti sta fallendo. Era stato raggiunto all’ultimo minuto per evitare una serie limitata di strike missilistici americani sulla Siria come risposta alla strage chimica di agosto – un intervento militare che il segretario di stato John Kerry anticipò sarebbe stato “incredibilmente piccolo”. Gli strike non ci furono e a metà settembre il mondo tirò un sospiro di sollievo per la soluzione elegante. Cinque mesi più tardi, però, come nota Mikulak, il governo siriano sta trasformando un patto già deciso nei dettagli in materia per nuovi negoziati. Assad non è più così malleabile com’era davanti alla prospettiva che le sue infrastrutture militari ancora funzionanti fossero colpite dai missili americani e avanza richieste di equipaggiamento per lo stesso motivo per cui si è presentato alla Conferenza di Ginevra: perché vuole recuperare legittimità politica. Se portasse via le armi chimiche con blindati donati dalla comunità internazionale sarebbe visto come un partner che lavora con gli americani, i russi e le Nazioni Unite contro la minaccia di un attacco terroristico – che è il messaggio che ha fatto ribadire a Ginevra – e non più come un pariah.

In questi giorni il governo siriano sta anche allungando le interminabili trattative per consentire l’accesso di convogli umanitari alle zone assediate dall’esercito, come a Homs e vicino Damasco. Da mesi molte aree abitate da civili e fuori dal controllo di Assad sono state circondate e sottoposte al ricatto “resa o morte per fame”. La questione – che in tutto e per tutto è un ricatto – è diventata materia di negoziati diplomatici con la comunità internazionale.

Lo stallo deliberato del disarmo chimico in Siria sta diventando un avvertimento per l’altro grande accordo nell’area mediorientale, quello con l’Iran sul programma nucleare, a cui l’Amministrazione Obama dedica la maggior parte dei suoi sforzi. Parlando con il Foglio, il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, a novembre disse che l’accordo con Damasco era il modello da seguire anche con Teheran: trasportare tutto il materiale pericoloso fuori dai confini del paese, per non lasciare adito a dubbi e per risolvere la questione in via definitiva, senza aprire il balletto delle ispezioni. Sembra però che neanche il modello originale funzioni bene.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Daniele Raineri   –   @DanieleRaineri, 31 gennaio 2014 - ore 06:59