Un premier politecnico. Così Letta ha trasformato

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 il governo del presidente nel governo di nessuno

Movimenti di Renzi. Il voto di martedì. Ambasciatori al lavoro con il Quirinale. Bazoli jr: “Bisogna prendere il timone”

“Sì vabbè: guardate che qui non si arriva nemmeno al venti febbraio”. Fino a qualche giorno fa era solo un pettegolezzo, un sussurro, un bisbiglio, un chiacchiericcio da Transatlantico, e l’ipotesi che Renzi potesse far fermare adesso la corsa del governo dai renziani veniva sempre seguita con lo sguardo divertito di chi stava ascoltando una buona barzelletta. Due giorni dopo la direzione in cui il sindaco di Firenze ha dato appuntamento al venti febbraio per decidere quale sarà il destino del governo tutto è cambiato: il pettegolezzo è passato dallo stato gassoso a quello solido e in Parlamento, ora, anche i renziani ammettono che la prossima settimana può accadere qualsiasi cosa. Qualcuno lo dice sotto voce. Qualcuno comincia a dirlo anche a voce alta. “Io non so se gli convenga a Matteo”, dice Alfredo Bazoli, renziano, deputato Pd, nipote di Giovanni Bazoli, capo di Intesa SanPaolo, “ciò che è evidente è che nelle condizioni in cui si trova oggi rischia di farsi logorare da fuori. E allora tanto vale assumersi il rischio, provare a governare questo passaggio e farsi garante delle riforme: anche a costo di prendere in mano il timone e guidare la nave da Palazzo Chigi”. La giornata di ieri, cominciata con un post su Twitter del segretario (“A me conviene votare, all’Italia no”), ci dice che nei rapporti tra il Pd e il governo qualcosa forse è cambiato in modo definitivo. Ieri mattina gli ambasciatori di Renzi in terra quirinalizia (Graziano Delrio in primis) si sono messi in moto per capire se da parte del presidente esiste la disponibilità ad accettare il fiorentino come nuova lingua di Palazzo Chigi e l’impressione che se ne ricava è questa: Napolitano ha fiducia in Letta ma di fronte alla scelta di Renzi di andare a Palazzo Chigi non sarebbe contrario in modo pregiudiziale (specie se il nuovo premier dovesse garantire l’appoggio di Forza Italia per approvare le riforme costituzionali). Parte del destino del governo verrà chiarita già martedì prossimo quando alla Camera arriverà il voto sulla legge elettorale (e se nel segreto dell’urna i deputati dovessero affossare l’Italicum non ci sarà, come dice Paolo Gentiloni, “altra strada che votare subito con la legge elettorale disegnata a gennaio dalla Consulta”).

Letta, come sempre, ostenta la sua tranquillità, si fa forza del suo rapporto con il Quirinale, mostra una sostanziale distanza dai problemi interni al Pd ma dopo undici mesi di governo nel partito sono in molti a considerare la distanza dal partito ostentata dal presidente del Consiglio come la causa principale della debolezza dello stesso premier. Una distanza che non va intesa con la presenza alle direzioni e alle assemblee ma che va intesa con un atteggiamento che ha portato l’ex vicesegretario a essere percepito come un presidente del Consiglio così lontano dal Pd da non essere quasi più considerato un presidente del Consiglio del Pd. E la ragione per cui renziani, bersaniani, dalemiani e persino i camaleontici franceschiniani osservano Letta come “il presidente del Consiglio di nessuno” – e la ragione per cui Letta si ritrova insomma a dover fare i conti persino con un ex presidente del Consiglio che ama molto riflettere con gli occhi socchiusi (Prodi) e che si permette di dire che questo governo si deve svegliare – la ragione, si diceva, non è legata soltanto all’insoddisfacente attività di governo ma è legata a una scelta kamikaze fatta dallo stesso primo ministro. Questa: muoversi non come un uomo di parte ma come un politico neutro e imparziale, quasi un presidente della Repubblica in miniatura, che a forza di mostrare la sua terzietà e la sua equidistanza tra le forze che appoggiano il governo ha finito però per trasformarsi in un “politecnico” (politico+tecnico). Il momento di massima lontananza mostrato da Letta nei confronti del Pd ha coinciso con l’appuntamento delle primarie. Il premier, alla fine del 2013, ha scelto di votare ai gazebo ma ha deciso di non legare il suo destino a quello di nessun candidato. Risultato: nessun candidato alle primarie (nessuno) ha messo al centro della sua mozione congressuale la difesa di questo governo; e così, mentre Letta difendeva la sua terzietà, non si accorgeva che il Pd si stava lentamente allontanando dal suo governo. Oggi a Letta (che i renziani vedrebbero bene come ministro dell’Economia di un governo Renzi) resta la fiducia del Quirinale. Ma il logoramento del presidente del Consiglio aumenta ovviamente il logoramento della presidenza della Repubblica. E più passa il tempo e meno l’ombrello con cui Napolitano prova a tenere Letta al riparo dalla pioggia sarà in grado di tenere il politecnico Enrico lontano dai temporali del Pd.

FQ. di Claudio Cerasa   –   @claudiocerasa, 8 febbraio 2014 - ore 06:59