Acqua, servono investimenti, non ideologia. La legge

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regionale del Lazio non supera i problemi aperti dal referendum

sugli investimenti

Lucia Quaglino*Linkiesta In partnership con Leoni Blog 21/03/2014

Nel Lazio è stata approvata la prima legge regionale per la gestione pubblica e partecipata dell’acqua, frutto di una proposta di cittadini e comuni. La legge prevede che i vecchi Ato, Ambiti territoriali ottimali, siano sostituiti dai bacini idrografici, che dovranno essere individuati dalla Regione entro sei mesi; dovrà essere rispettato un bilancio idrico sostenibile, ossia in grado di assicurare «l’equilibrio tra prelievi e capacità naturale di ricostituzione del patrimonio idrico», aggiornato con cadenza almeno quinquennale; si dà ai comuni la possibilità di trasformarsi in consorzi e affidare il servizio a enti di diritto pubblico. È inoltre previsto il monitoraggio delle perdite idriche e la creazione di un fondo per la ripubblicizzazione delle gestioni in essere, finanziato con risorse regionali.

Festeggiano i referendari, che però sembrano ignorare o dimenticare – tra le altre cose – che di fatto il referendum ha lasciato più questioni aperte e situazioni dubbie che altro. Una tra tutte, la remunerazione del capitale investito: riguarda solo il capitale investito, o tutto il capitale proprio; le nuove norme si applicano anche alle concessioni già in itinere, o solo a quelle future?

Sconsigliato illudersi che questa legge serva a chiarire alcunchè, anche con riferimento al primo quesito referendario (sull’affidamento del servizio a operatori privati). Il referendum era, è e continuerà a rimanere nient’altro che fuffa, e ancora poco è stato fatto per rendere più trasparente la normativa di riferimento e le modalità di gestione del settore: il punto è che quando si parla di acqua – che prima di tutto è una risorsa fondamentale – si parla principalmente di un servizio. Perché nessuno può usufruire dell’acqua – sia per usi civili, che industriali – se questa non viene trasportata, depurata e trattata. E per fare questo servono i tubi e gli impianti: e non si va da nessuna parte se questi non vengono finanziati.

Proprio gli investimenti – ne servirebbero circa 4,5-5,5 miliardi l’anno – sono il vero problema: perché banche e istituti finanziari dovrebbero finanziare un settore ad alto potenziale, ma dalle regole del gioco e governance imprevedibilmente variabili? Una regolazione credibile e stabile è quindi ciò che serve – indipendentemente dal modello di gestione prevalente -, come insegna l’esperienza inglese. Oggi è garantita dall’Aeegsi, il cui operato è all’altezza della situazione, ma troppo spesso ostacolata da questioni di principio più che di sostanza. Ed è in un ritardo imbarazzante: l’Ofwat, l’agenzia di regolazione inglese, è nata nel 1989!

Volendo, invece, prendere a riferimento l’esempio della ripubblicizzazione francese, si consideri che la scelta era fondata su forti argomentazioni economiche: un’amministrazione pubblica relativamente efficiente garantiva, infatti, finanze locali adeguate a finanziare gli investimenti. Siamo così certi che anche in Italia ne saremmo in grado? Non si rischiano, piuttosto, conflitti di interesse e clientelismo? Proprio per garantire una maggiore trasparenza sarebbero state opportune gare per l’affidamento del servizio.

A cosa serve, poi, monitorare le perdite idriche, quando l’urgenza è rimediarvi (e, a tal proposito, non sembra esserci nulla di concreto nella legge del Lazio)? E per questo servono, ancora, investimenti. Senza, non solo siamo condannati a un peggioramento del servizio e al rischio di altre sanzioni europee, ma c’è anche una perdita netta in termini di occupazione.

Quello idrico è un settore industriale come gli altri: consorzi e aziende speciali possono essere all’altezza della gestione di questo settore così complesso? E perché ripubblicizzare aziende efficienti? Basti pensare, tra gli altri, a Smat, un gioiellino nel territorio torinese, che i referendari vogliono trasformare in azienda speciale: per quale motivo cambiare ciò che funziona bene (peraltro essendo a capitale pubblico)? E con quali risorse? Le Regioni chiudono i bilanci con pesanti disavanzi, ogni anno da anni: dove reperiranno le coperture per i fondi per la ripubblicizzazione? Che poi, sia chiaro, al costo della ripubblicizzazione bisogna aggiungere il “canone d’uscita” per il gestore uscente.

Non dimentichiamo, inoltre, che pesano sul settore anche le sanzioni europee per inadempienza alle direttive comunitarie per depurazione e fognature. Ancora: dove sono i soldi per pagare le multe e, soprattutto, per intervenire sulle infrastrutture? Considerando che, in particolare al Sud, neanche utilizzano i fondi disponibili, le soluzioni non sono poi molte, sia la gestione pubblica o privata: o tramite gli incrementi tariffari o tramite gli aumenti fiscali. Da qui, non si sfugge.

Resta, alla fine, ancora così voglia di festeggiare?