L’Italia comincia a battere moneta

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Il governo, senza strepiti, rinvia il pareggio di bilancio.

S’incrina la linea totalmente remissiva sull’austerity Ue. Ma il Nobel Stiglitz, al Foglio, dice che ci condizionerà ancora “l’approccio mistico di Berlino” alla crisi

L’Italia raggiungerà il pareggio di bilancio, ma lo farà nel 2016 invece che nel 2015. Ieri il Parlamento, oltre al Documento di economia e finanza (Def), ha approvato la linea decisa dal governo rispetto agli impegni europei. Senza strepiti eccessivi, ma quello dell’esecutivo è un cambio di passo innegabile. Il governo tecnico di Mario Monti aveva fatto di tutto – riuscendoci – per abbassare il rapporto deficit/pil sotto il 3 per cento e uscire dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo. Enrico Letta nel 2013 aveva preferito ostentare un eccentrico ottimismo sui tassi di crescita italiani, salvo poi rendersi conto che il risanamento fiscale non era stato all’altezza delle aspettative e vedersi quindi costretto da Bruxelles a rinunciare in extremis alla minima flessibilità di bilancio cui originariamente Roma aveva diritto. Invece Matteo Renzi e il suo ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, da una parte adducendo “circostanze straordinarie” di tipo internazionale, dall’altra incardinando riforme strutturali e revisione della spesa pubblica, chiedono ora ufficialmente in cambio un po’ di pragmatismo a Bruxelles.

Dalle previsioni economiche di maggio della Commissione e dalle raccomandazioni di giugno si capirà se il permesso dell’Ue sarà stato accordato. Ma sarà possibile bocciare l’Italia che sulla velocità di rientro del deficit è più virtuosa di tutti gli altri grandi paesi europei (Germania esclusa)? E farlo, poi, dopo aver concesso più tempo a Spagna e Francia, tra gli altri, per scendere sotto il 3 per cento?

Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia, non è pessimista sullo slancio riformatore del nuovo governo italiano. Rimane pessimista, però, sulla china dell’Eurozona. “Il punto è che non esistono riforme strutturali italiane che, di per sé, possano invertire la tendenza nel paese o nel continente”, dice al Foglio l’economista della Columbia. “Le riforme strutturali, necessarie, porteranno frutti soltanto se il quadro europeo sarà cambiato. Si prenda la riforma del mercato del lavoro. Più flessibilità in uscita serve: se l’economia corre, infatti, sarà più facile che i posti di lavoro meno produttivi siano abbandonati a favore di quelli che lo sono di più. Ma se l’economia è in recessione o stagnante, il risultato saranno soltanto più licenziamenti, reddito inferiore e domanda che si riduce”. Su cosa dovrebbe cambiare per avviare questo circolo virtuoso a livello continentale, per correggere “un sistema intrinsecamente instabile”, Stiglitz ha le sue idee – unione bancaria, qualche forma di mutualizzazione del debito sovrano, una Banca centrale più interventista  – ma insiste su una premessa: “Da economista, dico che l’attuale dottrina dominante in Europa è incomprensibile. Vige infatti un approccio mistico alla crisi, mentre tutta l’evidenza empirica indica un’altra direzione”. L’austerity fiscale non sarà un bel vedere, ma intanto perfino la Grecia è tornata a conquistarsi un po’ di fiducia dai mercati, non trova? “L’accanimento in termini di rigore fiscale non ha funzionato nella Grande depressione degli anni 30, non ha funzionato nella crisi asiatica degli anni 90 e nemmeno in quella argentina”. Stiglitz concede che il calo di prezzi e salari in alcuni paesi mediterranei possa essere interpretato come un recupero di competitività rispetto al nord Europa, ma aggiunge: “Ci sono diversi modi per diventare più competitivi, cosa che sicuramente alcuni paesi devono fare. Si potrebbe perseguire un aggiustamento nei paesi periferici, ma che sia ‘relativo’ rispetto a quanto avviene in Germania. Berlino perciò dovrebbe spingere i salari all’insù o almeno accettare un po’ d’inflazione in più”. In questo modo, un guadagno di competitività – in Spagna o altrove – non passerebbe automaticamente per un taglio dei salari nominali, e il rapporto debito pubblico/pil (misurato in rapporto al pil nominale) calerebbe più facilmente. “La Germania deve capire che la strada attuale, quella della svalutazione interna e della deflazione in alcuni paesi, porta dritti alla miseria. Se funzionasse, tra l’altro, smentirebbe perfino la storia: perché il regime monetario del Gold standard, con i suoi aggiustamenti automatici fino alla Prima guerra mondiale, non funzionò più?”. Stiglitz intravvede, in questa scarsa flessibilità del paese guida europeo, un eccesso di moralismo applicato alla macroeconomia: “L’idea tedesca è che le riforme siano simili a un processo di purificazione” per peccatori-debitori. “L’Italia dovrebbe emergere, dopo questo decennio, come un paese ‘puro’. Ma in realtà potrebbe uscirne come un paese ferito e con profonde cicatrici, tra perdita di capacità produttiva e capitale umano”. 

L’ex presidente dei consiglieri economici di Bill Clinton e capo economista della Banca mondiale suggerisce poi “un’altra via per far riguadagnare competitività all’Europa”, quella di “abbassare il valore dell’euro che invece non smette di apprezzarsi rispetto al dollaro”, aiutando così le esportazioni del continente. “Questo finora la Banca centrale europea non l’ha fatto”. Se l’obiettivo della Bce è “soltanto quello di domare l’inflazione”, allora eccoci davanti a un’altra “scelta moralista” che “l’Europa sta già scontando sul panorama internazionale. Stati Uniti e Giappone infatti da anni perseguono una politica di svalutazione competitiva. Egoisticamente noi americani possiamo dire che la nostra politica sta funzionando solo perché la Bce non ha capito il gioco, o quantomeno ha scelto di non partecipare. Il problema che da economista mi pongo è: perché la Bce ha deciso di giocare in questo modo, o meglio di non partecipare al gioco? La risposta, nell’accademia, nessuno la sa dare”. Secondo Stiglitz, come confermano i dati sull’inflazione ancora in ribasso e i timori di deflazione incombente, “la Bce è sempre nella situazione di aver fatto qualcosa ma non abbastanza”, poi chiosa: “Il problema non è il presidente Mario Draghi, che anzi si è mosso bene anche rispetto ai predecessori. Il problema è nell’istituzione stessa”.

Lo scenario è fosco, ma l’economista sottolinea di non suggerire a nessuno l’uscita dall’euro: “Ho solo paura che, tra le riforme necessarie a livello europeo e il divorzio tra gli stati membri, voi europei possiate scegliere la via di mezzo: tirare avanti barcamenandovi”, in inglese “muddle through”. “Sa quale sarebbe allora il paradosso?”, conclude il Nobel: “In questo modo ai cittadini europei si imporranno i costi associati a entrambe le due scelte più radicali, senza i benefici delle stesse. Prima dovranno sostenere un periodo di doloroso e prolungato aggiustamento, ma non appena tutto questo diventerà politicamente insostenibile, allora ecco che gli europei potrebbero doversi sobbarcare anche i costi dell’uscita dalla moneta unica”. Concedere all’Italia un anno in più per raggiungere il pareggio di bilancio, dunque, potrebbe non bastare all’Europa.

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di Marco Valerio Lo Prete   –   @marcovaleriolp