Parole in libertà vigilata. Perché Putin e l’occidente

non chiamano le cose con il loro nome

di Redazione | 30 Agosto 2014

Barack Obama dice che giudica la Russia “non dalle parole ma dai fatti”. Ma le parole sono importanti e, pronunciate o meno, possono produrre fatti. E’ per questo che Obama non pronuncia la parola “invasione”, mentre altri governi e organizzazioni internazionali si destreggiano in espressioni oblique come “non abbiamo conferma indipendente dell’intervento russo in Ucraina”. Chiamare le cose con il loro nome significa anche dare il via a una serie di meccanismi di diritto internazionale che vengono messi in moto dalla parola “invasione” pronunciata ad alta voce. Alla quale segue la parola “guerra”, che comporta altri passi inevitabili come aiuti e impegni, alleanze e rotture, strategie e tattiche che nessuno vorrebbe vedere applicate. Vladimir Putin a sua volta assegna grande importanza alle parole. Come molti russi allevati dalla propaganda comunista, pensa che chiamare una cosa in un certo modo ne cambi la natura. Dice per esempio che i parà russi catturati in territorio ucraino si sono “persi” (“io ci credo, veramente”, ha giurato ieri). Va a un vertice di pace per lanciare solo invettive economiche, perché la Russia “non è in guerra”. Mezzo mondo ormai non si fida più della Russia, ma il Cremlino si attacca alle sue parole preferite come a un salvagente. E quindi bisogna prestare attenzione alle nuove parole del vocabolario di Mosca. La prima è “volontari”, e definisce i militari russi che “durante le ferie” combattono al fianco dei separatisti.

La seconda è l’“operazione militar-umanitaria”, un ossimoro rilanciato ieri da Putin per incoraggiare la controffensiva dei separatisti: a Mosca sanno che gli occidentali sono molto sensibili alla parola “umanitario”. Giochi di parole che però hanno un effetto nella realtà. Kiev ha già chiesto all’Alleanza atlantica – l’unica che parla a voce alta di invasione – lo status di alleato speciale e aiuti militari, e vuole cancellare la legge che la impegna alla neutralità. Rendendo così una profezia che si autoavvera la paura russa della Nato ai propri confini. E sperando che Putin si fermi a Donetsk e non decida di sfidare le intolleranze semantiche dell’occidente ancora più a ovest.

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