L'offerta di Matteo Renzi alla minoranza
(più correttamente: alle minoranze) del Pd, per entrare in una segreteria definita unitaria, potrà essere accolta in tutto o in parte o quasi per nulla. In sé, tuttavia, gli oppositori a R. avrebbero scarso interesse a un'intesa. Hanno dalla loro una carta da giocare che, se non consente di vincere, tuttavia infastidisce, ostacola, rallenta l'azione del presidente del Consiglio: i gruppi parlamentari.
Infatti è più facile costringere R. a cedere su singoli punti del programma facendo ricorso ai parlamentari che non agendo sul partito. Un esempio estremo è costituito dalla legge elettorale. La paralisi che l'italicum subisce al Senato (la Camera lo licenziò l'ormai lontano 12 marzo) dimostra che Renzi preferisce tener ferma la legge piuttosto che finire in un tritacarne: se volesse confermare il testo avrebbe con sé soltanto una minoranza dei propri senatori più Fi). Guardiamo a un caso meno dirompente: la riforma del lavoro.
Sarebbe più facile, per i contestatori interni al Pd, operare pressioni in Parlamento, invece di subire le indicazioni dell'ipotetica segreteria unitaria.
Ci si può a volta a volta riferire alla pubblica amministrazione, alla scuola, alla giustizia, alle riforme costituzionali: non v'è tema sul quale non abbondi la dissidenza nel Pd, emarginabile nel partito, ma più difficilmente riducibile al silenzio alla Camera e, ancor meno, al Senato.
In buona sostanza, le minoranze del Pd (che tali non sono nei gruppi) non hanno mai, proprio mai, tollerato la vittoria di R. Il partito che esse vogliono non è quello dipinto dal segretario, così come le leggi che esse gradiscono non sono quelle presentate dal presidente del Consiglio. E agiscono di conseguenza.
di Marco Bertoncini Italia Oggi, 10.9.2014