Giustizia climatica. Naomi Klein mette il clima nel

Categoria: Firme

guazzabuglio dei sensi di colpa del capitalismo,

ma manca il bersaglio

di Mattia Ferraresi | 02 Ottobre 2014 ore 10:47

Naomi Klein ha una tecnica infallibile per vendere libri e guidare azioni di protesta in cui i manifestanti brandiscono i suoi libri: individua un problema abbastanza grave da suscitare un senso diffuso di paura e ne attribuisce la colpa al capitalismo, alle multinazionali che speculano, ai princìpi del libero mercato che glorificano gli avvoltoi e schiacciano gli innocenti. Lo ha fatto con la globalizzazione ai tempi di “No Logo” e delle tute bianche di Seattle e poi con la guerra in Iraq, immancabilmente portata allo scopo di imporre il sistema capitalistico nel paese per sfruttare selvaggiamente le risorse petrolifere, tesi che si smonta con un elementare calcolo della differenza fra i costi dell’occupazione militare e i ricavi energetici.

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Ora è venuto il momento di attribuire la colpa dei cambiamenti climatici. Dopo aver fatto passare come verità di fede che la salute del pianeta è in pericolo per colpa dell’uomo, bisogna capire quali uomini in particolare stanno mandando a rotoli il mondo, e la tesi fondamentale del libro “This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate” non è difficile da indovinare. Sono le multinazionali senza scrupoli che emettono le diossine, signora mia, mica quelli che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. L’argomento di Klein si applica facilmente a qualunque problema sia abbastanza complesso da non essere figlio putativo di una causa specifica. Il capitalismo è abbastanza diffuso da funzionare come passe-partout per qualunque serratura, tanto un colletto bianco mascalzone che si è arricchito scaricando veleni nell’aria lo si trova sempre. L’attivista canadese mette dentro al calderone tanti elementi spuri, le banche, le frustrazioni della middle class, l’avidità rapace, sentimenti che uniscono Occupy Wall Street alla marcia per il clima di New York, dove 300 mila persone hanno sfilato per chiedere all’Onu di prendere decisioni importanti nella conferenza in preparazione della conferenza del prossimo anno a Parigi. Ovviamente le nazioni più inquinanti non si sono nemmeno presentate. Il coacervo ideologico all’intersezione fra le culture war, l’ambientalismo e Piketty va sotto il nome di “giustizia climatica”, etichetta perfetta per chi come Klein coltiva la sistematica tendenza a dare la colpa di ogni cosa al capitalismo cattivo.

Il tribunale delle intenzioni - Quando però anche su Slate, portale orientato a sinistra, scrivono che Klein ha torto, allora è bene farsi qualche domanda. Il “capitalismo deregolamentato” di cui parla non ha fatto più danni climatici dei governi e del settore pubblico che rimanda di conferenza in conferenza un protocollo per regolare le emissioni. Le corporation, per la verità, hanno fatto e fanno molto per promuovere politiche verdi, ché spesso si tratta di rinnovamenti che fanno tagliare i costi e risparmiare risorse. Se gli Stati Uniti sono riusciti a tagliare le emissioni di CO2 del 10 per cento dal 2008 a oggi è soprattutto grazie agli investimenti delle multinazionali. Sorge una domanda: se il capitalista sostituisce un macchinario con un modello più ecologico perché comporta un risparmio, e non perché salva il pianeta, sarà salvato o condannato nel tribunale delle intenzioni presieduto da Klein? Come si risolve l’eterogenesi per cui talvolta, anzi spesso, il profitto e il rispetto dell’ambiente sono rette convergenti? Forse Klein suggerisce il ritorno a una vita più semplice, una decrescita felice verso un passato con meno interessi, meno caste, meno libri di attivisti.

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