Diabete: cure davvero «personali»

per chi ha la glicemia alta

È una patologia che presenta molte implicazioni sul piano psicologico e relazionale,

oltre che metabolico. I trattamenti devono tenere conto delle differenze fra i malati

di Adriana Bazzi Il Corriere salute 20.10.2014

Un anno fa il cinquantottenne attore americano Tom Hanks, due volte premio Oscar per i film Philadelphia e Forrest Gump, ha confessato, nel salotto del David Letterman Show, di avere un diabete di tipo 2. A causa, forse, delle variazioni di peso cui è andato incontro per interpretare i diversi ruoli nei suoi film. I medici gli hanno suggerito di ritornare al peso che aveva al liceo per guarire. «Impossibile - ha scherzato lui -. A quell’epoca ero magrissimo, perciò mi rassegno a essere diabetico». La sua storia si aggiunge a quella dei 346 milioni di persone in tutto il mondo (52 milioni in Europa, 3 milioni in Italia) che soffrono della stessa malattia. Il diabete di tipo 2 è una vera e propria epidemia, anzi uno tsunami come l’ha definito il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon. E le previsioni per il 2025 parlano di un aumento impressionante dei casi, soprattutto legati all’obesità, che potrebbero raggiungere il miliardo (sono due i tipi di diabete mellito: quello di tipo 2 che compare nell’adulto e quello di tipo 1 che colpisce invece persone giovani: il primo rende conto del 90 per cento dei casi di malattia). Quindi tantissime le persone colpite, ma ognuna diversa dall’altra, come sottolinea un recente articolo di Lancet intitolato: «Le molte facce del diabete: una malattia che rivela una sempre maggiore eterogeneità».

C’è il paziente con un diabete lieve che può essere controllato con la sola dieta oppure con gli antidiabetici orali, c’è invece, quello che deve ricorrere alle iniezioni di insulina anche più volte al giorno e monitorare la glicemia durante la giornata (cioè la quantità di zuccheri nel sangue che indica se la terapia funziona). Tutti, ma in particolare questi ultimi, devono convivere con una malattia che può provocare disagio o, come dicono i ricercatori, «distress». L’impatto del diabete nella vita quotidiana è stato valutato da uno studio chiamato Dawn2 (che ha coinvolto 15mila persone, soprattutto diabetici, ma anche i familiari e gli operatori sanitari di 17 Paesi di 4 continenti) che è stato presentato a Vienna in occasione del 50° congresso dell’Easd (European Association for the Study of Diabetes). «Il diabete non comporta solo il rischio di gravi complicanze a cuore, reni, occhi, quando non è tenuto adeguatamente sotto controllo - commenta Antonio Nicolucci, responsabile del Dipartimento di farmacologia clinica ed epidemiologia della Fondazione Mario Negri Sud -, ma provoca, appunto, un distress che può essere definito come il peso psicologico che il malato percepisce nel dover gestire una patologia che è cronica e il proprio futuro. Nel nostro Paese un paziente su due lamenta questo disagio, legato alla gestione della cura e anche alla discriminazione di cui è oggetto. Un dato significativamente maggiore rispetto alla media europea, che si attesta attorno al 40 per cento. Tanto per fare un esempio solo un olandese su cinque si lamenta».

I pazienti italiani intervistati nel corso dell’indagine riferiscono un impatto negativo della malattia sul benessere fisico (65 per cento) e su quello psicologico (48 per cento). In particolare pesa il dover seguire la terapia soprattutto se prevede iniezioni di insulina e preoccupa il rischio di ipoglicemie, cioè di cali improvvisi degli zuccheri nel sangue. E il 18 per cento fra i malati presenta segni di lieve depressione.«Con una differenza di genere a quest’ultimo proposito - continua Nicolucci -. Le donne ne soffrono di più». Il peso della malattia ricade anche sui familiari: la metà degli intervistati si preoccupa molto per le condizioni del malato e molti si sentono frustrati perché non riescono ad aiutare il proprio congiunto e vorrebbero essere più coinvolti nella gestione delle cure. Poi c’è il problema della discriminazione, nell’ambiente di lavoro per esempio, che segnala almeno il 19 per cento dei pazienti. «Lo studio Dawn2 - commenta Salvatore Caputo, presidente di Diabete Italia - è il primo studio che pone particolare attenzione agli aspetti psicosociali della gestione del diabete e ha contribuito a modificare il modo in cui noi medici guardiamo alla malattia».

20 ottobre 2014 | 09:55

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