Chi ha distrutto l'Italia adesso cerca di difendere

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 i cosiddetti enti intermedi. L'Italia è stata spolpata da partiti voraci, da sindacati spartitori di risorse pubbliche, da enti locali dissennati,

da enti di rappresentanza esclusivamente romano-centrici, cresciuti a dismisura, non per difendere gli interessi degli associati di fronte a una concorrenza mondiale che è sempre più vasta, ma per spillare risorse e benefici dalle casse pubbliche che, a loro volta, in base ai loro comportamenti, si ritiene siano alimentate, non dai soldi di tutti, ma dai soldi di nessuno. È quindi lì che si possono pescare ad libitum i soldi per favorire gli amici o per fare investimenti a capocchia, con la scusa di Keynes che, poveraccio, sentendosi arbitrariamente attribuire tante nefandezze, si rivolterà sicuramente nella tomba.

Chi, come politico autorevole o come guru accreditato, ha ininterrottamente partecipato, nei passati decenni, alla costruzione di questa castello di nefandezze e ridotto l'Italia nella condizioni attuali (che sembrano quelle di un lazzaretto) dovrebbe avere il buon gusto, avendone l'età, di ritirarsi a vita privata e di lasciare che, almeno, siano altri a sbagliare, se questa è la nostra condanna. In fondo, la democrazia li favorisce. Infatti la democrazia consente la sostituzione per via incruenta della classe dirigente di un paese, rivelatasi inetta agli occhi degli elettori. Senza la democrazia, questa sostituzione avviene lo stesso, ma per via cruenta. In Italia purtroppo, questo sistema non funziona, perché non è prevista la sostituzione morale delle élite al potere che si sentono arbitrariamente votate all'esercizio dl potere in eterno.

Negli altri paesi democratici, ad esempio, i leader politici battuti dalle urne, o dalla politica, non solo si fanno in disparte ma vengono addirittura esclusi, subito e definitivamente, dalla vita politica attiva. Provate, per un attimo, a pensare un panorama politico italiano privo di Berlusconi (cito solo lui perché in Fi c'è solo lui), Bersani, D'Alema, Prodi, Veltroni. Si respirerebbe. O, almeno, si udirebbe un altro spartito, dopo essere stati narcotizzati per trent'anni, dalla stessa musica. Gli inglesi, ad esempio, hanno mandato a casa, senza tanti complimenti, Churchill (che pure aveva salvato il Regno Unito, battendo Hitler) e poi Margaret Thatcher (che aveva tirato fuori l'UK da una recessione che sembrava non avesse mai fine), e poi ancora Tony Blair (che ha avuto così il tempo, fra l'altro, di corteggiare la moglie asiatica di Rupert Murdoch). Nessuno oggi, in UK, e men che meno lui stesso, penserebbe di ricandidare Tony Blair a nuovi incarichi politici. In Italia invece, tanto per fare un esempio sui mille che si potrebbero fare, Romano Prodi aspira ancora a entrare nel giro, e al massimo livello, della politica che conta. Anche in Germania non è prevista la riutilizzazione politica persino di Helmut Kohl. Il premier storico e indiscusso del boom economico, del prestigio politico internazionale germanico e della riunificazione tedesca è stato fatto fuori dalla sua assistente (Angela Merkel) ed è quindi finito, non in panchina, ma fuori gioco, a vita.

Gli sconfitti ma sempre vincenti (che è una deleteria specialità politica, tutta italiana) sono insonni nel riproporre le solite loro ricette che ci hanno già portato fuori strada. Uno di loro, nell'articolo di fondo di un grande giornale, si è lamentato ieri della rottamazione degli enti intermedi che sarebbero, secondo lui, elementi essenziali per la tenuta sociale del paese. Avrebbe dovuto lamentarsi, questo archeo-solone, della finta rottamazione, quella «detta ma non fatta», altro che della rottamazione. Renzi infatti va criticato, non per aver abolito il Senato, ma per averlo voluto ridicolmente riformare. La rottamazione (se tale voleva essere nei fatti e non solo nelle parole) avrebbe dovuto essere molto semplice e basata su un solo articolo: «Il Senato è abolito». Invece Renzi ha voluto riformare il Senato per cui la Camera alta è restata, ei suoi costi pure. In compenso, i senatori restano e non sono più votati dagli elettori (che vengono così espropriati anche di questo loro diritto). I futuri senatori saranno infatti scelti e mandati a Roma dal ceto politico italiano più squalificato, quello delle regioni.

Così non ci si può lamentare dell'abolizione di un altro ente intermedio come le province (anche se sarebbe stato mille volte meglio abolire le regioni, al loro posto). Ma ci si dovrebbe motivatamente lamentare della pasticciata riforma delle province per cui, alla fine del processo, non ci sarà risparmio nella spesa pubblica, ma, in compenso, anche qui, sarà tolto al popolo il potere di nominare i componenti i consigli provinciali. Potere che è già stato attribuito alla nomenclatura politico-municipale.

Renzi, per concludere, ha fatto bene a proporre il tema della semplificazione istituzionale italiana (questo è il punto). Invece è proprio l'idea della semplificazione (annunciata ma poi non fatta, com'è costume di Renzi) che viene adesso contestata dall'archeo-solone con nostalgia di un passato di devastante e spudorata spartizione partitica, ad ogni livello. Renzi doveva disboscare senza mezzi termini, rudemente. Invece si è limitato a staccare qualche foglia. Il risultato è che ha sprecato un'occasione storica, visto che aveva l'opinione pubblica favorevole, per poi non riformare un tubo. Ma il disboscamento andava fatto. Purtroppo non è stato fatto, questa è la successiva constatazione. E chissà quando mai verrà fuori, di nuovo, uno in grado di farlo. Non vorrei fosse la Troika. Che però, essendo anch'essa una nomenclatura (cane non mangia cane), anziché disboscare il panorama pubblico parassitario, finirà, per trovare nuove risorse, per salassare ulteriormente la povera gente che non è in grado di difendersi. E lascerà in pace i partiti, i sindacati e gli enti intermedi che, per dirla con l'archeo-solone, resteranno in piedi perché «sono essenziali organi di rappresentanza e di raccordo». Cioè sono, in gran parte, parassiti che esigono, e ottengono, rispetto. Anche se il 63% dei non votanti in Emilia-Romagna non è d'accordo. Fino a quando, la nomenclatura, tirerà la corda? Possibile che non si accorga di niente? A che percentuale di astensione finirà per cambiare? O attende le vie di fatto?

Pierluigi Magnaschi, Italia Oggi 3.12.2014

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