La scienza triste diventa gaia. Economisti guru e autodafé

Categoria: Firme

L’autocritica di Zingales sulla finanza, le ossessioni di Krugman bocciate da Sachs, il protagonismo di Piketty

di Marco Valerio Lo Prete | 08 Gennaio 2015 ore 15:43 Foglio

Roma. Thomas Carlyle, nel 1849, definì l’economia come “la scienza triste”, “the dismal science”. Oggi sono in pochi a ricordare che il filosofo e storico scozzese se la prendeva in questo modo con i mercatisti che propugnavano l’abolizione della schiavitù in nome dell’arido incrocio di “domanda e offerta”. L’etichetta di “scienza triste” infatti è così efficace che ogni generazione trova un qualche motivo per affibbiarla di nuovo alla disciplina economica. L’età contemporanea non fa eccezione. Eppure gli economisti, oggi, sembrano tutto fuorché tristi. Confusi, a sette anni dall’inizio della recessione globale, questo sì. Ma anche ringalluzziti dall’essere al centro del dibattito pubblico. Lo testimoniano le recenti riflessioni di alcuni “economisti rock star”, come vengono chiamati oggi.

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Zingales: meglio essere rigorosi che voler influire a tutti i costi sulla politica. “La finanza genera benefìci per la società?”, si è chiesto domenica scorsa Luigi Zingales, economista nato in Italia e trasferitosi negli Stati Uniti fin dai primissimi anni 90 per un dottorato al Mit. Dubbi, quelli sui benefìci della finanza, per varie ragioni sorprendenti. Non soltanto perché l’autore è professore all’Università di Chicago che è stata la culla di un’omonima Scuola di convintissimi liberisti, oltre che autore di libri come “Salvare il capitalismo dai capitalisti” (nel 2004 assieme all’attuale banchiere centrale indiano, Raghuram Rajan) e “Manifesto capitalista” (testo che nel 2012 gli valse tra l’altro l’acclamazione di alcuni esponenti repubblicani), infine editorialista del confindustriale Sole 24 Ore. Ragionare in maniera dubitativa sui “benefìci” della finanza è a maggior ragione significativo perché è un esercizio svolto da Zingales in qualità di presidente uscente della prestigiosa American Finance Association, la principale associazione accademica dedita allo studio della finanza, già presieduta fra gli altri da Franco Modigliani, John Cochrane e Raghuram Rajan. Per Zingales comunque anche i più convinti fan della finanza farebbero bene a dubitare, visto che oggi il 57 per cento dei lettori dell’Economist (“non proprio un gruppo antipatizzante”, ha scherzato) non è d’accordo con la frase “l’innovazione finanziaria spinge la crescita economica”. E considerato pure che negli ultimi due anni l’industria finanziaria, nei soli Stati Uniti, ha dovuto pagare multe per un ammontare di 139 miliardi di dollari. L’economista ha ragionato sull’“ipertrofia” del settore finanziario contemporaneo; ha ricordato casi storici di “imbrogli” da parte degli operatori privati, con una menzione speciale per le italianissime Cirio e Parmalat; infine si è soffermato sul “ruolo distorsivo dello stato”, dal vizio del “too big to fail” (che ha reso più spregiudicati gli operatori che si sentivano garantiti dai contribuenti) al caso di Fannie Mae e Freddie Mac (che pompavano la bolla dei mutui ipotecari con le spalle protette da Washington). Se gli esperti del settore non si batteranno con più forza per denunciare tali storture – è il ragionamento di Zingales – il risentimento dell’opinione pubblica contro la finanza crescerà ancora, incentivando ulteriormente quegli operatori che si muovono con logiche da club o col sostegno sotterraneo dei governi, tagliando fuori la “finanza buona” e “competitiva”. Da qui l’autocritica: “Come categoria, noi economisti finanziari siamo stati troppo orgogliosi dei risultati tecnici che abbiamo raggiunto e del successo economico della nostra disciplina, troppo indulgenti con i nostri errori. C’è oggi un enorme gap tra la nostra auto-percezione e la percezione esterna del nostro ruolo nella società, un gap che può minare il buon funzionamento del sistema finanziario”. Da qui per esempio l’invito ai colleghi a essere “rigorosi, non policy-relevant”. Perché l’ossessione di essere ascoltati dal legislatore di turno – dice Zingales, che pure in Italia nel 2012 flirtò per qualche mese con la politica attraverso la lista liberista Fare per Fermare il declino e che oggi è nel Cda dell’Eni in rappresentanza del Tesoro – incentiva gli studiosi a sostenere fin da subito soluzioni considerate più “realistiche”. Così però l’economista veste, in maniera inconscia, i panni del politico; come lui subisce il lobbying del settore finanziario (che d’altronde foraggia anche cattedre e ricerche) e finisce per danneggiare immagine e funzionamento di un comparto così decisivo per lo sviluppo. 

Krugman: un caso di eccessiva partigianeria, parola di due economisti liberal. Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia ed editorialista del New York Times, “dovrebbe sostituire il suo cappello di polemista con quello di analista, riflettendo più a fondo sulla recente attualità: calo del deficit accompagnato da ripresa economica, creazione di posti di lavoro e disoccupazione in calo”. E’ quanto scrive Jeffrey Sachs, economista e professore di Sviluppo sostenibile alla Columbia, liberal e anche lui con un debole per John Maynard Keynes. Secondo una recente invettiva pubblicata da Sachs su Project Syndicate, infatti, Krugman si sarebbe fatto prendere la mano in questi anni; al punto da non riuscire oggi ad ammettere che gli Stati Uniti hanno ridotto il rapporto deficit/pil dall’8,6 per cento del 2011 al 2,9 per cento del 2014, riducendo allo stesso tempo la disoccupazione e rilanciando la crescita. Altro che insuccesso degli “austerians”, come Krugman bolla i fautori dei conti in ordine facendoli sembrare – pure per assonanza – di un altro pianeta. Sachs rimane convinto che “più governo nell’economia” sia necessario, ma la crisi dimostra che l’obiettivo va raggiunto “senza deficit di bilancio cronici”.

D’altronde già Tim Harford, editorialista del Financial Times ed estimatore di Krugman, nel suo bestseller “The Undercover Economist Strikes Back” aveva osservato come l’editorialista del New York Times avesse troppo semplificato e quindi manipolato la celebre parabola di una cooperativa di baby sitter solo per puntellare i propri argomenti a favore di un intervento ultra espansivo delle Banche centrali.  

Piketty, ovvero la deriva del dibattito economico al tempo dei social network. Da segnalare, infine, il reportage apparso ieri sul Sole 24 Ore a firma del ricercatore ed editorialista Carlo Bastasin. Una vivida testimonianza da un lussuoso hotel di Boston dove era stato invitato a parlare l’economista francese Thomas Piketty, autore del tormentone anti diseguaglianza “Il Capitale nel XXI secolo”. Con economisti che urlano in platea – ha raccontato Bastasin – e intimidazioni a brutto muso a quegli studiosi che indugiano troppo sulla parte metodologica delle proprie ricerche. E’ l’economia nel 2015, altro che “la scienza triste”.