Rispettare l’ostico 3 per cento senza riconoscerlo.

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Il caso americano. Quel che è certo è che al momento “l’economia mondiale viaggia con un unico motore, quello americano”.

di Marco Valerio Lo Prete | 15 Gennaio 2015 ore 17:00 Foglio

Roma. “L’economia mondiale è in una congiuntura sconcertante. E’ un momento difficile per le previsioni”. Quel che è certo è che al momento “l’economia mondiale viaggia con un unico motore, quello americano”. Così ieri ha parlato Kaushik Basu, capoeconomista della Banca mondiale. I mercati non potevano prenderla bene, così a metà giornata le Borse si muovevano già in terreno negativo. In chiusura, complice anche il forte ribasso dei prezzi della materie prime, i listini hanno chiuso in rosso (Milano meno 1,6, Londra la peggiore a meno 2,3). L’organizzazione internazionale con sede a Washington ha tagliato le sue stime sulla crescita del prodotto interno lordo (pil) globale nell’anno in corso. L’economia mondiale quest’anno crescerà soltanto del 3 per cento, meno del più 3,4 per cento previsto nel giugno scorso. Nel 2016, poi, il pil globale salirà del 3,3 per cento, contro il più 3,5 stimato in precedenza. Nel 2017 un’altra frenata (relativa), con il pil in crescita del 3,2 per cento. Gli Stati Uniti, in questo contesto, spiccano per la loro vitalità nel gruppo dei paesi di antica industrializzazione. Con effetti estremamente positivi sulla situazione delle finanze pubbliche americane.

 “Crescita modesta” è quella che la Banca mondiale si attende per il prossimo futuro dai “paesi ad alto reddito”. Il pil di questo gruppo di paesi salirà del 2,2 per cento quest’anno, dopo il più 1,8 segnato nel 2014, e poi di circa il 2,3 per cento nel 2016-’17. L’eccezione americana è evidente: gli Stati Uniti, con un pil che ha segnato più 2,4 per cento lo scorso anno, cresceranno del 3,2 per cento nel 2015. L’Eurozona, per fare un raffronto, crescerà soltanto dell’1,1 per cento quest’anno, perdipiù in uno scenario in cui “un’inflazione scomodamente bassa potrebbe durare ancora a lungo”.  

Anche le finanze pubbliche di Washington risentiranno, in positivo, del fatto che l’America è per il momento l’“unico motore” della crescita globale. A riconoscerlo, ieri, è stato il Wall Street Journal, quotidiano finanziario edito da Rupert Murdoch e mai tenero con l’Amministrazione democratica di Barack Obama. “Gli Stati Uniti lo scorso anno hanno ottenuto il deficit di bilancio più contenuto dal 2007, segnando un’inversione di rotta per le proprie sorti economiche”, scrive il Wall Street Journal. Il 2014 si è chiuso infatti con un deficit di 488 miliardi di dollari, cioè 72 miliardi in meno rispetto al 2013. Se poi si considera “l’anno fiscale”, la differenza tra entrate e uscite dello stato è ancora minore, pari a 483 miliardi.  In termini percentuali, equivale a dire che il deficit è inferiore al 3 per cento del pil. Se gli Stati Uniti fossero all’interno dell’Eurozona, quindi, rispetterebbero già il celebre tetto al deficit imposto dal Trattato di Maastricht, lo stesso limite cioè che il governo italiano si sta battendo per rendere più flessibile, e lo stesso cui paesi come Francia e Spagna (seconda e quarta economia della moneta unica) non riescono ancora ad adeguarsi. Non solo: nel 2015 gli Stati Uniti continueranno a ridurre il rapporto deficit/pil, convergendo idealmente sull’obiettivo del pareggio di bilancio imposto dalle nuove regole fiscali di Bruxelles. Il tutto, ovviamente, senza il bisogno di riconoscere quelle regole che sono tanto care alla leadership politica tedesca e non solo. Ennesima prova di un concetto lapalissiano: non è la quantità di paletti legislativi o regolamentari, per quanto arcigni, a propiziare l’aggiustamento delle finanze pubbliche; secondo un recente studio del Fondo monetario internazionale, oggi nell’Eurozona ci sono almeno cinque regole ufficiali da rispettare sui conti (dal tetto del 3 per cento al deficit all’Obiettivo di medio termine, eccetera) contro le due regole che esistono in media negli stati federali.

Il risanamento in corso oltreoceano, secondo il Wall Street Journal, è innanzitutto conseguenza della crescita robusta dell’America. Se sale il pil, cioè il denominatore del rapporto deficit/pil, il valore di questo rapporto scende. I dati del dipartimento del Tesoro, però, dimostrano che anche la spesa federale si è stabilizzata dal 2010 a oggi. Nel 2009 le uscite del governo federale aumentano di molto, per effetto dello stimolo fiscale di oltre 800 miliardi di dollari messo in campo dall’Amministrazione Obama. Allora il rapporto deficit/pil, complice anche la caduta del gettito fiscale, arrivò fino al 10 per cento (3,5 punti percentuali in più rispetto all’Eurozona nello stesso momento). Nel 2014, lo stesso rapporto deficit/pil è di oltre 7 punti percentuali inferiore. I problemi sono dunque tutti alle spalle? Non ancora, lascia intendere il Congressional Budget Office, l’istituto del Congresso che analizza in maniera indipendente i conti pubblici: dal 2016 si prevede che il decificit americano riprenderà a salire. Le uscite del governo infatti aumenteranno più delle entrate soprattutto in ragione delle maggiori risorse da dedicare a Social security e sanità pubblica per fronteggiare l’invecchiamento demografico della popolazione americana.

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