SE LE PAROLE HANNO UN PESO. L’Italia scende in guerra

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contro lo Stato Islamico, almeno quello di Libia. La dichiarazione l’ha formulata il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che in un’intervista a Sky ha detto che l’Italia “sostiene la mediazione dell’Onu” ma “se non riusciamo nella mediazione, credo che bisogna porsi il problema

di Gianandrea Gaiani 16 febbraio 2015, pubblicato in Editoriale AD

con le Nazioni Unite, di fare qualcosa di più”. L’Italia, ha aggiunto il ministro, “è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale. Non possiamo accettare che a poche ore di navigazione dall’Italia ci sia una minaccia terroristica attiva”.

L’ultima volta che la politica italiana ha utilizzato il verbo “combattere” c’era ancora Benito Mussolini alla guida della Repubblica di Salò, dettaglio che sembrerebbe indicare che questa volta anche a Roma fanno sul serio e considerano lo Stato Islamico alle porte della Penisola un cancro da estirpare.  Forse non è proprio così.

Certo sarebbe buona norma dichiarare la guerra quando si hanno già piani pronti per agire immediatamente, invece il governo sembra trovarsi spiazzato dopo le dichiarazioni di Gentiloni.

Matteo Renzi ha ribadito che l’Italia è pronta “a fare la sua parte” (non ha usato il verbo combattere’) ma il riferimento è sempre a quella missione dell’ONU che non solo non si vede all’orizzonte ma rischia di non avere più alcun senso dal momento che avrebbe dovuto dispiegarsi con compiti di peacekeeping in seguito a un accordo tra i due contendenti: il legittimo governo laico di Tobruk con l’esercito e quello islamista insediatosi a Tripoli con le milizie del fronte ”Alba della Libia”. L’accordo finora non c’è stato e il “terzo incomodo”, cioè lo Stato Islamico, sta prendendo piede probabilmente grazie anche alla defezione dei molte milizie islamiche di “Alba della Libia” attirate dal messaggio politico e dai soldi del Califfato. frutto probabilmente dei lucrosi traffici di clandestini verso l’Italia.

Aspetti non secondari se si vuole andare in guerra. Il presidente della Commissione Esteri del Senato, Pierferdinando Casini ha invece smentito Gentiloni. “Non esiste l’ipotesi di un intervento militare italiano in Libia, Esiste invece la necessità che l’Onu si assuma la responsabilità di convocare al più presto il Consiglio di sicurezza”.

Il Ministro della Difesa, Roberta Pinotti pur precisando che “stiamo parlando di ipotesi  e non c’è alcuna decisione”, ha fatto balenare l’ipotesi di schierare in Libia 5 mila militari . A fare cosa? Con quale missione, quali alleati locali e internazionali?

 

Nessuna forza politica o militare libica vuole una presenza straniera “boots on the ground”  mentre finora i Paesi europei e del Nord Africa (Egitto e Algeria in testa) non sembrano ansiosi schierare truppe in Libia, soprattutto per fare la guerra in un Paese dominato da schieramenti fluidi in cui operano centinaia di milizie.

In assenza di un robusto mandato per fare la guerra, senza alleati internazionali e locali, con poche idee e per giunta confuse la missione italiana in Libia rischia di abortire ancor prima di cominciare.

 

Infatti lo Stato Islamico, che di guerra se ne intende, ha già cominciato a muovere le sue pedine. La radio dell’IS in Iraq ha definito Gentiloni “ministro degli Esteri dell’Italia crociata” accettando di fatto la dichiarazione di guerra e probabilmente ha già cominciato a mostrarci i muscoli.

Uomini armati di AK-47 hanno intimato a una motovedetta della Guardia Costiera di imbarcare i clandestini e di lasciare loro il barcone col quale sono tornati comodamente in Libia. Non era mai successo prima ed è difficile non abbinare l’evento alla dichiarata belligeranza dell’Italia.

 

L’equipaggio della motovedette non ha reagito per non mettere a rischio le vite degli immigrati ma successivamente sarebbe stato meglio attaccare gli scafisti anche a scopo deterrente, per evitare che alla prossima occasione provino ad abbordare una motovedetta italiana e ad assumerne il controllo.

La guerra baldanzosamente dichiarata non è cominciata bene neppure sul fronte della propaganda. Domenica è stata chiusa l’ambasciata italiana a Tripoli e sono stati evacuati un centinaio di italiani. Un’operazione riuscita e certo opportuna ma che dopo la “dichiarazione di guerra” di Gentiloni sembra una ritirata che certo potrebbe venire sfruttata dagli abili propagandisti dell’IS.

Se davvero l’Italia è pronta a combattere cominci a dimostrarlo. Ad esempio  consentendo ai nostri Tornado che volano sull’Iraq di bombardare lo Stato Islamico come fanno i cacciabombardieri degli altri membri della Coalizione. Oppure attuando un blocco navale alle coste libiche che consenta di bloccare i flussi migratori (sbarcando i clandestini sulla costa libica) contrastando i trafficanti e ponendo fino al giro d’affari che li arricchisce.

Una simile iniziativa mostrerebbe la determinazione dell’Italia a difendere frontiere e interessi nazionali e metterebbe le nostre forze armate in condizione di colpire con precisione dal mare le milizie jihadiste.

In alternativa a un dispiegamento d truppe sul terreno sarebbe forse più indicato e meno rischioso in termini di perdite e di costi finanziari schierare un dispositivo aereo in Sicilia e uno navale a ridosso delle coste libiche incentrato sulla portaerei Cavour e unità da assalto anfibio tipo San Giorgio.

Una forza aerea e navale, simile per dimensioni a quella messo in campo nel 2011 nella sciagurata guerra contro Gheddafi, consentirebbe di colpire dal cielo le milizie dello Stato Islamico, condurre incursioni mirate con forze aeromobili e anfibie e schierare a terra solo i reparti necessari a specifiche missioni o ad affiancare e sostenere milizie libiche anti-IS.