Crisi Libica: quali prospettive? (4.Fine)

Categoria: Firme

Documento di base di un più articolato ed approfondito elaborato in corso di approntamento da parte della Fondazione I.C.S.A. (Intelligence Culture and Strategic Analisys), in cui  verrà delineato il ruolo dell’Italia per ogni possibile tutela degli interessi nazionali in Libia. (Fine puntate)

di Luciano Piacentini e Claudio Masci* Analisi Difesa

La Libia ha sempre visto l’esistenza di due territori importanti come la Tripolitania e la Cirenaica ed una terza, un po’ negletta, il Fezzan, tutte con culture ed ideologie completamente diverse, anche se si è cercato di considerala come una nazione, amalgamata da invasioni, sottomissioni e dittature.

Il vero ed unico collante – difficilmente individuabile per i ”non addetti ai lavori” – che, per quasi due secoli ha tenuto insieme, ma non unificato, queste diverse realtà etnico-tribali, è rappresentato  da quel credo religioso diffuso nell’area dalla Senussiya. La confraternita è tuttora detentrice di una fede ispirata non solo ai principi ed ai valori dell’Islam sunnita (“scuola” malikita – confessione in cui si riconosce la maggioranza dei maghrebini), ma anche ad un’esclusiva “lettura” ed interpretazione di tale confessione, professata e diffusa da una tariqa mistico-propagandista-militante.

 La confraternita, infatti, non predica soltanto il ritorno dei fedeli al Corano ed alla Sunna ma rifiuta l’“imitazione” (taqlid) degli insegnamenti dei principali e tradizionali Saggi dell’Islam.

Inoltre, esige che vengano seguite – senza discuterle – le decisioni della sua Autorità religiosa nei vari campi, sulle quali non ammette critiche né discussioni. Questa concezione e questa pratica  dell’Islam sono state contestate (o quanto meno biasimate), dalla maggioranza dei teologi delle altre “scuole” sunnite nonché da quelli della “scuola” malikita.

 La conduzione politico-culturale-religiosa della confraternita ha assunto, in Libia,  fin dall’inizio un carattere tipicamente dinastico e gerarchico, mantenuto successivamente da tutti i naturali discendenti del primo fondatore.

 La setta si è strutturata secondo un’organizzazione gerarchica che, ancora oggi – pur se proibita in Libia durane il regime di Gheddafi – è composta da:

-    lo Sheikh Supremo (o Sceicco, detentore della “Santa Barakah, il potere di impartire la benedizione di Dio)

-    ”), ovvero il vertice. Carica e responsabilità tuttora rivestite dall’ultimo rampollo, in ordine di tempo, della famiglia del primo fondatore: cioè, da Sayyed o Sidi Muhammad bin Sayyed Hasan ar-Rida al-Mahdi al-Sanûsi o al-Senussi (1992 – fino ad oggi) che continua a dirigere la confraternita con molta discrezione e diplomazia, dal suo confidenziale esilio di Londra;

-    tre alti dignitari: il Gran Khalifa (o Vicario dello Sceicco), l’Ukil o l’Uqil (o Amministratore/Tesoriere) ed il Responsabile dei tolba (gli studenti coranici) delle zawiya della setta, che seguono subito dopo;

-    una serie di Sheikh el-zawiya, cioè di responsabili – ufficiali e qualificati – dei diversi Centri religiosi regionali della confraternita, subalterni ai precedenti tre;

-    una moltitudine di medi e piccoli Mokkaddem (direttori o soprintendenti), dislocati nelle diverse regioni e province di maggiore interesse della senussiya, sottomessi ai precedenti, con l’incarico speciale di svolgere la delicata ed aggregante mansione di predicatori itineranti.

Al più basso “gradino” di quest’ordine gerarchico si trovano gli affiliati  alla setta che, a loro volta, sono differenziati – a seconda della loro personale sensibilità, del livello di convinzione e della preparazione spirituale – in responsabili di cellula, militanti e semplici aderenti o simpatizzanti.

 Tutti i dignitari – per rivestire le cariche ed esercitare le mansioni attribuite – devono essere in possesso del “diploma mistico” (Ijéza o Igéza), che viene conseguito esclusivamente all’interno della setta, frequentando e superando lunghe, esigenti ed intransigenti procedure ideologico-teologico-religiose.

 Questa peculiare comunità di fedeli si presenta come un’organizzazione di iniziati ideologico-religiosi (khuan) particolarmente ordinata, affiatata e strutturata come un organismo “para-militare”, per cui i singoli membri non sembrano essere solo degli inoffensivi adepti che obbediscono alle prescrizioni religiose (hadrah) di ogni Venerdì, ma  anche una struttura strettamente gerarchizzata, predisposta sia ad obbedire ciecamente agli ordini dei superiori sia a difendere, contro chiunque e con qualsiasi mezzo, la particolare dottrina dell’Islam nella quale ognuno di loro si identifica. Il fattore che conferma questa valutazione di soggetto politico paramilitare, si rinviene nel suo impiego in attività di guerriglia condotte contro L’Italia dal 1911 al 1943.

 Da quanto precede si desume che le varie entità tribali libiche sono profondamente permeate e condizionate dalla Senussiya  e dalla sua organizzazione – soprattutto lo Scheik -  che mediante lo strumento religioso, ha non solo islamizzato l’intera area  in cui esse sono dislocate, ma anche personalizzato ed accentrato il potere a tal punto da renderlo – ricorrendo ad una nota metafora – un mantello indosso ad uno e ad uno soltanto: si tratta di una strategia originata certamente durante la presenza coloniale italiana, rafforzatasi attraverso una progressiva legittimazione di Idris quale guida politica del fronte indigeno indipendentista ed il sodalizio maturato con Londra nel secondo dopoguerra.

L’attuale lotta fratricida libica, quindi, presenta tutte le caratteristiche di un conflitto asimmetrico tra la popolazione della regione di Tripoli contro quella dell’area di Bengasi e delle regioni limitrofe. Lo scontro, tuttavia,  è sempre esistito in modo sotterraneo o a bassissima intensità.

Infatti, i Tripolitani sono culturalmente attratti dal potere politico centrale della capitale, legame reso evidente durante la dittatura di Gheddafi, mentre i Cirenaici (provincia orientale di Barqa) sono molto legati alla tradizione locale ed alla senussiya, si sentono soffocati dagli ideali centralistici della Tripolitania e non si considerano rappresentati da Tripoli.

 Sicché le condizioni attuali della Libia possono essere riassunte sulla base delle tre seguenti evidenze – un governo impossibilitato a governare, un’economia frammentata e paralizzata e l’ordine pubblico gestito ad “usum delfini” e nel caos – nelle quali si ritrovano:

-    altezzosità ed inettitudine di politici, associate a presunzione e millanterie di militari;

-    rivalità e conflitti di interesse tra le varie milizie che culminano in scontri efferati;

-    commistione di organizzazioni criminali e jihadiste, che alimentano estremismi religiosi ed opportunismi delinquenziali;

-    permanenti contatti fra elementi di al Qaeda rientrati in Libia ed esponenti dell’IS per trasferire in loco il “brand” dello Stato Islamico, riorganizzare gli estremisti e procedere – con la conversione forzata e la pulizia etnica – verso la costituzione di “aree islamizzate”;

-    ambizioni mai sopite dei simpatizzanti del vecchio regime,  in maggior parte rifugiati all’estero e capeggiati da Sayf Gheddafi – rifugiato a Londra – che hanno continuato a sovvenzionare clandestinamente progetti ed azioni volte ad impedire il funzionamento delle Istituzioni nate dalla rivoluzione;

-    vantaggi per le organizzazioni criminali che condividono l’interesse a destabilizzare per impedire il controllo del territorio nazionale da parte di legittime Autorità, ostacolando la ricostruzione di istituzioni forti, in grado di stabilire un clima di sicurezza soddisfacente e funzionale;

-    mentalità burocratica e deresponsabilizzazione tipiche del “divide et impera”, sistema con cui Gheddafi ha governato la Libia per quarant’anni,

 tutti fattori nei quali non si riescono a trovare punti di contatto per una efficace mediazione.

In tale quadro si avanzano seri dubbi sulla possibilità di tenere assieme – da parte di un potere centrale – forze storicamente centrifughe, specie in presenza di interferenze esterne (Francia, Inghilterra e USA), mosse da rilevanti “appetiti petroliferi.

Non a caso, Sayyid Idris bin Sayyid Abdullah al-Senussi (Idris al Senussi), Gran Senusso e presunto (ex) erede al trono, ha lavorato con Condotte, Ansaldo Energia, Eni e Snamprogetti,  si è distinto per una azione di lobbing su ben 41 parlamentari britannici, ma è stato anche Director of Washington Investment Partners and China Sciences Conservational Power Ltd. ed ha interessi plurimilionari nel settore petrolifero, come li ha  il suo lontano parente Ahmed Abd Rabuh al-Abar, noto businessman di Bengasi.

La caduta di Gheddafi ha soltanto schiuso il vaso di Pandora del più fanatico degli integralismi che si è saldato con gli immensi appetiti che inevitabilmente suscita l’economia di un Paese che tuttora si basa al 95% sugli introiti e sulla redistribuzione della rendita petrolifera. Riserva di petrolio fra la Tunisia e l’Egitto, la Libia costituisce una posta in gioco mondiale nel quale anche la Francia, per lungo tempo esclusa, é oggi pienamente coinvolta

Secondo alcuni osservatori geopolitici l’operazione militare del 2011 avrebbe avuto come scopo, “a lungo termine”, quello di ristabilire l’egemonia anglo-statunitense nel Nord Africa, una regione storicamente dominata da Francia e in misura minore, da Italia e Spagna.

Il disegno di Washington sarebbe stato quello di indebolire i legami politici di Tunisia, Marocco e Algeria  verso la Francia cercando di instaurare nuovi regimi politici con un rapporto stretto con gli Stati Uniti. Infatti, la Libia confina con molti paesi che sono sfera d’influenza della Francia tra i quali anche Niger e Ciad: ed Exxon, Mobil e Chevron hanno interessi nel sud del Ciad, tra cui un progetto di gasdotto che arriverà fino alla regione sudanese del Darfur, ricco di petrolio.

Va aggiunto che anche la China National Petroleum Corp (CNPC) ha firmato un accordo di vasta portata con il governo del Ciad nel 2007 e la strategia statunitense mira anche ad escludere la Cina dalla regione. Sempre ai confini della Libia c’è il Niger che possiede ingenti riserve di uranio, attualmente controllate dal gruppo francese Areva nucleare, precedentemente conosciuto come Cogema, ed anche la Cina ha una partecipazione nell’estrazione di questo uranio.

Dunque, il confine meridionale della Libia è strategico per gli Stati Uniti nel suo tentativo di estendere la sua sfera di influenza nell’Africa francofona, una regione che faceva parte degli imperi coloniali di Francia e Belgio.

el quadro delineato, non appaiono casuali sia l’improvvisa e generalizzata “rivolta delle popolazioni libiche” sia la successiva, aggressiva e sproporzionata solerzia con la quale la Francia (Total-Fina) in primis, Gran Bretagna (British Petrleum e Shell) e Stati Uniti (Exxon, Mobil, Chevron e Occidental Petroleum) hanno caratterizzato la frettolosa e drastica iniziativa di intervenire militarmente, come vere e proprie parti in causa nella “guerra civile” che tuttora sta vivendo la Libia dal febbraio 2011. (www.mirorenzaglia.org/2011/03/libia-evviva-i-“buoni”).

Inoltre, la partenza prematura d’intermediari internazionali, imposta dalla miope retorica nazionalista e/o populista dei vari leader rivoluzionari, ha reso estremamente difficile la costruzione di nuove istituzioni politiche nazionali, marginalizzando la partecipazione alle scelte politiche di gran parte della popolazione che rimane schierata con il processo di transizione verso la democrazia ed è alla ricerca di sicurezza e stabilità.  Inoltre, gran parte della società civile, che rappresenta il futuro del paese, dopo oltre quattro decenni di dittatura, non ha alcun desiderio di ritrovarsi nuovamente ghettizzata sia economicamente sia politicamente.

Ed è proprio questo malcontento del popolo che deve essere opportunamente convogliato per replicare alle sfide che lo stesso sta affrontando, che determineranno il successo o il fallimento della transizione verso la democrazia.

L’excursus sopra riportato, mostra a chiare note l’impossibilità di una soluzione militare, tenuto conto che nessuno è abbastanza forte per controllare da solo il paese, neppure con l’aiuto di un energico sponsor esterno. La responsabilità, pertanto, va ricondotta nelle mani delle forze politiche che, attraverso un energico e credibile  processo di mediazione già in corso di attuazione – con il sostegno dell’Italia – da parte dell’ONU,  si riapproprino del processo decisionale, superando divisioni e contrasti per ritrovare coesione e forza necessarie a dare impulso alle riforme di cui il paese ha disperatamente bisogno.

Per un aggiornamento della situazione, appare utile sottoporre all’attenzione una serie di eventi del 2015 che stanno aggravando il teatro degli scontri, fra i quali risalta la perdita di un’irripetibile occasione che avrebbe potuto rafforzare l’embrionale processo di mediazione dell’ONU da parte dell’Italia, cui il governo di Tobruk – l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale a guidare la Libia – ha richiesto aiuto per scongiurare un disastro economico e ambientale nel Mediterraneo.

Il giorno di Natale, i ribelli islamici di “Alba della Libia” hanno incendiato parte dei depositi del terminal di Sidra, importante porto petrolifero libico, che ha provocato un rogo che ha bruciato milioni di barili di greggio, privando quel governo di importanti risorse finanziarie.  La richiesta dell’urgente intervento di aerei della protezione civile italiana per spegnere l’incendio è stata sottoposta a condizioni di sospensione dei combattimenti, mentre poteva essere accettata e poi barattata con l’avvio di un dialogo. Non è nostra intenzione sindacare né criticare le scelte politiche, ma solo attirare l’attenzione su metodi alternativi per la soluzione di problemi complessi. L’idea va interpretata come una proposta per l’impiego di strumenti Intelligence (diplomazia parallela) che, in situazioni conflittuali, possono conseguire maggiori successi di quelli politici.

Ciò anche nella considerazione che, dopo il rifiuto italiano, gli eventi susseguitisi hanno ulteriormente complicato il contesto:

-    sono stati sferrati, nei primi giorni di gennaio 2015, da parte del governo libico riconosciuto internazionalmente, una serie di attacchi aerei sul porto di Derna, che hanno colpito la petroliera greca Araevo, provocando un incidente diplomatico fra i due Paesi;

-    sono stati decapitati, nel corso della prima settimana del 2015 – a Sebha, da milizie  jihadiste seguaci dello Stato Islamico dell’Emirato di Derna – una diecina di militari libici, a dimostrazione di una saldatura fra estremisti libici e quelli siro-irakeni;

-    è giunto, lunedì cinque gennaio, il rinvio “sine die” da parte dell’ONU il tentativo di mediazione che il suo emissario, Bernardino Leon, aveva appena iniziato ad esplorare;

-    sono riaffiorate le velleità francesi di un intervento diretto in Libia, fatto dal Ministro della difesa Jean-Yves Le Drian – che ha fatto conoscere che la Francia non potrà mai “accettare” che la Libia si trasformi in una “roccaforte terrorista” – peraltro non chiaramente ridimensionate dall’intervento da parte del Presidente della Repubblica francese apparso sulla stampa del 6 gennaio;

-    sono stati compiuti gravi attentati a Parigi (8 e10 gennaio) che hanno scosso l’opinione pubblica mondiale.

A fronte di eventualità interventiste, che sembrano oramai rese più probabili dal precipitare degli eventi sopra riportati, alcuni organi di stampa hanno recentemente auspicato la possibilità che il processo di mediazione venga guidato dalla confraternita dei Senussi.

Tale confraternita – per la sua storia, le sue credenze religiose lontane sia dal wahabismo, sia dalla salafia, sia dall’estremismo dei Fratelli Musulmani – potrebbe fungere da catalizzatore degli opposti interessi in conflitto nonché trovare sostegno nelle parole pronunciate dal presidente egiziano Al Sisi durante il suo discorso rivolto a tutto l’Islam, tenuto il 1 gennaio all’Università Al Azhar del Cairo, che peraltro non sembra sia stato adeguatamente pubblicizzato ed accolto.

 In effetti, per un lungo periodo la confraternita ha costituito il riferimento etico e comportamentale della popolazione libica, sia stanziale sia nomade, radicandosi nella convinzione religiosa delle sue comunità. Va ancora aggiunto che la monarchia senussita ha realizzato e governato un regno con una costituzione federale che unificava tre stati indipendenti (Cirenaica, Tripolitania e Fezzan) dal 1951 al 1969, stabilendo un equilibrio tribale poi rotto dal colpo di stato di Gheddafi.

Per conseguire l’arduo obiettivo della pacificazione e sostenere il popolo libico nella ricostruzione politica ed economica del Paese, a prescindere dal tipo di governo se monarchico o repubblicano, si ritiene necessario proseguire sulla strada della mediazione, mediante:

-    coinvolgimento del clan senussita nell’opera di mediazione, anemizzandone la latente sponsorizzazione inglese con un’iniziativa a guida UE, qualora l’ONU non riapra la mediazione;

-    invito, a tutti gli attori internazionali, a congelare temporaneamente i loro rispettivi interessi, cessando di sostenere e di alimentare con armi e denaro le varie fazioni che sponsorizzano;

-    orientamento del processo di mediazione, verso il disfatto stato federale e la Costituzione del 1951, che ne era alla base, con gli eventuali aggiornamenti delle istanze attuali;

-    rimozione di veti per interessi  incrociati di potenze estere, ivi comprese quelle europee che, nonostante il regime dispotico di Gheddafi, hanno continuato a  gravare sull’area  sotto forma di protettorato latente. La “deriva” attuale è anche conseguenza della loro miopia strategico-politica e della loro insaziabilità – per anni si sono contese il dominio coloniale dell’area mediterranea – perché colpite anch’esse dalla crisi finanziaria del 2009, con il tentativo di sottrarre all’Italia risorse preziose per la sua economia cercando di targare “TOTAL” e “BP” le royalties detenute da ENI;

-    ricerca ed acquisizione del consenso della popolazione – nessun compromesso può reggere qualora se ne calpestino le aspirazioni – al fine di convogliare opportunamente il malcontento per replicare alle sfide, che il popolo stesso sta affrontando, che determineranno il successo o il fallimento della transizione verso la democrazia;

-    avvio del processo di riconciliazione nazionale, a premessa del dialogo per la riconciliazione  politica, aggregando un’ampia coalizione delle varie forze politiche, per stimolare l’opinione pubblica a sostenere la pacifica risoluzione dei conflitti, la definizione di strutture formali dello Stato ed il rispetto dei diritti civili e umani fondamentali;

-    recupero, nel più breve tempo possibile, della legittimità persa dando concreta attuazione a progetti esecutivi nei settori della sicurezza, della salute, dell’istruzione, delle infrastrutture e delle riforme politiche;

-    sostegno, nei confronti delle associazioni e confraternite islamiche, degli elementi di conciliazione e pacifica convivenza propagandati da Obama nel suo discorso a Il Cairo del 4 giugno del 2009, peraltro ribaditi, al ritorno dal viaggio in Turchia, da Papa Francesco che rivolto ai leader politici e religiosi islamici ha – tra  l’altro – detto: “Condannate chiaramente il terrorismo, l’Islam è un’altra cosa”.  “Il Corano è un libro profetico di pace”, in modo che la politica torni a prevalere sulle milizie armate che al momento controllano la base sociale del Paese.