Maroni, addio all'utopia Padania

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Si mangia e si beve al Berghem fest, anche sotto il diluvio: in questo

la nuova Lega di Roberto Maroni non è diversa da quella di Bossi. Il popolo padano è fedele: è sabato sera, piove, fa freddo, ma all'appuntamento con il capo non si manca. Nel «tendone dei dibattiti», accanto a quello di strozzapreti e porchetta, c'è più gente in piedi che seduta, si sta anche fuori, sotto ombrelli che il vento tenta di portarsi via. Cancellato il folclore nordista, sono pochi i fazzoletti verdi annodati al collo e le urla inneggianti a «Padania libera» o «secessione» si spengono in un attimo. Il palco è transennato come l'area in cui il segretario si fermerà a cena dopo il dibattito con Vittorio Feltri: la stagione della calca attorno al leader sembra archiviata, e anche il culto della personalità. L'orgoglio leghista non abita più nei simboli della protesta o nei decibel degli slogan. È sufficiente esserci. La semplice presenza, ed è una presenza massiccia, è il segno della resistenza alle bufere giudiziarie e ai ribaltoni di vertice. Di slogan Maroni ne lancia uno solo, la linea guida fino alle elezioni: «Prima il Nord». Le imprese, le famiglie, il lavoro del Nord contro i sussidi di stato all'Ilva, al Sulcis, alla sanità colabrodo della Sicilia. Prima il Nord, per diventare il primo partito sopra il Po. Obiettivo ambizioso, che passa attraverso una strada obbligata: togliere voti al Pdl. Ed ecco gli sfottò ad Alfano («una finta») e a Berlusconi: «L'altro giorno si è fatto male, ho detto che non ha più l'età per certe cose, era una battuta». Vittorio Feltri che lo intervista non perde l'occasione: «Tra voi e Berlusconi letti separati per sempre?». «Perché proprio l'immagine del letto se si parla di Berlusconi?». «Non riesco a immaginarmelo altrove». La sostanza resta comunque quella sancita al congresso del Carroccio: niente accordi con chi sostiene Monti «che deve cadere prima possibile». Con Berlusconi letti e camere separate, dunque: «A Roma, al governo, i risultati sono stati scarsi. I cambiamenti veri non li ottieni convincendo, ma se hai la forza di costringere qualcuno a farli. Io per l'euroregione padana scenderei a patti con il diavolo». Maroni davanti al suo popolo è un generale che deve rimotivare le truppe per una battaglia decisiva. Bobo si scaglia contro il «governo dei falli-Monti» e l'euro «che ha impoverito il Paese». Annuncia un referendum (giovedì sarà presentata la proposta di legge costituzionale) perché gli italiani possano dire «se vogliono essere ancora spremuti con la moneta unica oppure no», e un secondo per un sistema fiscale speciale per il Nord. Rivendica alla Lega e al suo ideologo Gianfranco Miglio l'idea di «euroregione del Nord» destinata - Maroni ne è certo - ad avere più fortuna dei proclami secessionisti. Negli sfottò rientra anche Formigoni, «quell'altro Roberto... come si chiama... Quello che ha scoperto l'euroregione soltanto adesso ma è benvenuto anche lui, se vuole davvero darci una mano» .Lo sforzo più impegnativo è però quello per rimettere in moto il partito, riprendere il consenso perduto negli scandali del «cerchio magico» bossiano («ora i sondaggi ci danno in crescita»), riconquistare la scena. Maroni si muove si tanti fronti: il nuovo ufficio politico «per dare risposte su ogni tema, non solo quelli del federalismo»; gli stati generali di fine settembre a Torino; la festa di Venezia senza riti celtici al Monviso e spostata nell'anniversario della battaglia di Lepanto (7 ottobre) «perché la nostra cultura e le nostre radici cristiane non le deve toccare nessuno». Poi il giro delle piazze d'Italia e il raduno finale a Pontida alla vigilia del voto. Il presupposto di tutto è che la Lega sia, o almeno appaia, di nuovo unanime e tetragona. Quando Feltri lo stuzzica sui dissidi con Flavio Tosi, Maroni si scalda: «Nessun contrasto perché da noi non ci sono “maroniani” ma soltanto leghisti che non molleranno mai». La fedeltà, l'identità, il territorio: pane per i denti padani che faticosamente riprovano ad azzannare Roma ladrona. Stefano Filippi – 3.9.2012