Il caso Morosini ha scoperchiato il vaso di Pandora della giustizia. Non resta che sperare che il prossimo governo non ci pensi due volte a togliere per sempre il tappo
di Claudio Cerasa | 07 Maggio 2016 ore 06:18 Foglio
Nella mitologia greca, il vaso di Pandora era il leggendario contenitore di tutti i mali che si riversarono nel mondo dopo la sua apertura e senza voler esagerare con le metafore si può dire che, nell’ambito dei rapporti tra politica e magistratura, la detonazione del caso Morosini ha avuto effetti simili. Una volta scoperchiato il vaso, attraverso le parole del consigliere del Csm raccolte da questo giornale, una serie di problemi legati al rapporto tra politica e magistratura, rimasti nascosti per molto tempo, sono risultati evidenti agli occhi di tutti. Persino, consentiteci un sorriso, a tutti coloro che oggi scoprono sì i drammi della magistratura politicizzata ma solo dopo aver contribuito per anni a diffondere allegramente in tutto il paese la semenza della politicizzazione della magistratura (il Pd e Repubblica).
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Tra i molti problemi sgusciati via dal vaso di Morosini ce n’è uno però che è stato ignorato da tutti gli osservatori e da tutti i politici intervenuti per condannare la presa di posizione del giudice del Csm (che ieri ha smentito ancora l’intervista confermando ancora il colloquio che ovviamente il Foglio conferma) e che riguarda il cuore della questione: un paese in cui proliferano allegramente correnti della magistratura che professano una propria identità politica potrà mai essere al riparo da un processo di politicizzazione della magistratura e potrà mai essere certo di avere a disposizione un sistema in cui vale il principio costituzionale della neutralità e della terzietà del giudice? Luciano Violante, intervistato ieri dall’Unità, ha segnato un punto notando che “un giudice che fa il militante di parte non può fare il giudice”. Ma il limite del ragionamento di Violante è che il problema del giudice “militante” non riguarda esclusivamente il caso Morosini ma riguarda il dna complessivo di un sistema profondamente segnato dall’appartenenza dei giudici e dei pm a quelle correnti che sono “un cancro della magistratura” e che spesso “utilizzano la giustizia come lotta di classe” (virgolettati di Raffaele Cantone).
“La via giudiziaria – ricordò nel 1996, Gerardo Chiaromonte, volto storico del Pci, in un saggio dedicato agli anni passati all’Antimafia – non può essere sufficiente a riformare il sistema politico o quello imprenditoriale ma deve soltanto condurre a individuare e a perseguire reati e responsabilità personali”. Al contrario di quello che si potrebbe credere “la giustizia come lotta di classe” non è un’affermazione provocatoria ma è la conseguenza diretta di un cortocircuito che si manifesta regolarmente nel nostro paese ogni volta che un governo, provando a cambiare la Costituzione, si ritrova contro un pezzo importante di classe politica e intellettuale che sogna di sconfiggere il nemico facendo leva su quella zona grigia e paludosa che si chiama “resistenza costituzionale” e in nome della quale i magistrati politicizzati confondeono facilmente la questione penale (combattere l’illegalità) con la questione morale (garantire la legalità). “Il magistrato che è salito sulla tribuna di un comizio elettorale a sostenere le idee di un partito – scrisse Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici” – non potrà sperare mai più, come giudice, di aver la fiducia degli appartenenti al partito avverso”. Il vaso di Pandora scoperchiato con il caso di Morosini ci dice molte cose ma ce ne dice soprattutto una: fino a che ci saranno le correnti della magistratura ci saranno giudici che saranno portati a sostenere le idee di un partito e se l’unico modo per cancellare le correnti è di introdurre il sorteggio nelle elezioni del Csm non resta che sperare che, una volta approvata la riforma costituzionale, il prossimo governo non ci pensi due volte a togliere per sempre il tappo al nostro vaso di Pandora. Si può fare, basta volerlo.
Categoria Giustizia