Giustizia penale in ritirata. Processo di depenelazziozione sempre maggiore

Categoria: Giustizia

La trasformazione della pena in sanzione pecuniaria, diventa sempre di più lo strumento abituale utilizzato dal legislatore per affrontare le emergenze del pianeta giustizia, dall’affollamento delle carceri all’ingolfamento delle procure e dei tribunali, dal fallimento della funzione rieducativa della pena al costo del sistema carcerario.

Di Marino Longoni4.9.9.2017 da www.italiaoggi.it

Sanzione penale in ritirata. Il processo di depenalizzazione, cioè la trasformazione dei reati in illeciti amministrativi o civili, con la conseguente trasformazione della pena in sanzione pecuniaria, diventa sempre di più lo strumento abituale utilizzato dal legislatore per affrontare le emergenze del pianeta giustizia, dall’affollamento delle carceri all’ingolfamento delle procure e dei tribunali, dal fallimento della funzione rieducativa della pena al costo del sistema carcerario.

Si comincia a parlare di depenalizzazione già negli anni 70, e la prima legge che porta questo nome è la n. 689 del 1981. Ulteriori, parziali riforme, successive sono state realizzate nel ’93 e nel ’99. Ma è negli ultimi anni che gli interventi del legislatore in questa materia sono diventati quasi assillanti. Nel 2000 viene infatti approvata la non punibilità davanti al giudice di pace del fatto tenue e del danno riparato dall’autore. Dopo ulteriori, piccoli interventi, nel 2014 si introduce nel codice penale la messa alla prova del colpevole di alcuni reati che, quando viene positivamente superata, lo rende non più punibile penalmente. Nel 2015 il fatto tenue non punibile entra nel codice penale per una serie piuttosto lunga di fatti fino a quel momento considerati reato. Nel 2016 i reati minori vengono depenalizzati e sottoposti a mere sanzioni pecuniarie. Infine nel 2017 si modifica nuovamente il codice penale prevedendo tutta una serie di condotte riparatorie che, anche in questo caso, fanno venir meno la sanzione penale.

È insomma un crescendo di misure, tutte orientate nella stessa direzione, che dimostra come il sistema penale sia vicino al punto di rottura e sia quindi necessario ridurre la pressione che grava su di esso. Ma dimostra anche la difficoltà per il legislatore di mettere in cantiere una riforma organica, strutturale, di ampio respiro.

 Ci si limita a mettere pezze qui e là, dove sembra più urgente. Il legislatore evita accuratamente di prendere di petto il problema, responsabilizzando in modo serio i magistrati, e si limita a intervenire sulle procedure. Di fatto lasciando il funzionamento del sistema nelle mani dei giudici, che potrebbero neutralizzare gli effetti di qualsiasi riforma con una cattiva gestione dei propri uffici. Evidentemente la politica, dopo Tangentopoli, è ancora sotto scacco da parte della magistratura e comunque è troppo debole per poter impostare riforme profonde del sistema.

Con la conseguenza, però, che una parte dei procedimenti che vengono tolti dalle spalle dei giudici penali, finiscono per gravare su quelle dei giudici civili o amministrativi. E non è detto che questi settori della giustizia siano modelli di efficienza, sempre in grado di dare un servizio rapido e preciso ai cittadini. Diminuire il numero dei procedimenti penali finisce quindi per aggravare altre criticità. C’è inoltre il problema che trasformare la sanzione penale in un risarcimento del danno potrebbe favorire i più ricchi, che dal punto di vista soggettivo vedrebbero ridotta l’afflittività della pena connessa al proprio comportamento dannoso, e questa è una delle critiche che sempre viene sollevata in occasione di qualsiasi intervento di depenalizzazione. Più raro invece sentire che queste riforme possono favorire addirittura i cittadini disonesti o nullatenenti che spesso, in un sistema giuridico malfunzionante come tante volte si presenta quello italiano, riescono a dribblare facilmente la sanzione pecuniaria. In questi casi il malcapitato danneggiato finisce per non aver più alcuna tutela reale.