Le manette sulla coscienza dei pm

Categoria: Giustizia

E se l’indipendenza togata finisse dove cominciano i Woodcock?

di Redazione | 31 Marzo 2015 ore 16:23 Foglio

Il pm di Napoli Henry John Woodcock (foto LaPresse)

E’ molto difficile non pensare che il nome di Massimo D’Alema, non indagato, sia stato stantuffato nelle carte consegnate ai giornali per rendere più gustosa, con cotanto fondale colorato, un’inchiesta altrimenti grigia, di poco attraente corruzione provinciale. Ma chissà. L’indagine napoletana sulle coop rosse della Campania, e sul sindaco di uno dei sette comuni di Ischia, finirà come finirà. Dopo aver emesso la sua sentenza mediatica, dopo aver diffuso intercettazioni ininfluenti e che riguardano anche persone non coinvolte nelle indagini ma tutte dai nomi molto evocativi (vedi Luca Lotti e Marco Carrai), potrebbe anche finire in una bolla di sapone, come del resto è già accaduto molte – troppe – volte per altre clamorose iniziative del sostituto procuratore Henry John Woodcock, indagini che non hanno superato nemmeno il primo giro di boa, quello dell’udienza preliminare, dove il castello accusatorio (chiedere a Vittorio Emanuele di Savoia, o a quel galantuomo di Franco Marini) è stato giudicato dai magistrati di garanzia lacunoso, inidoneo, carente. Ma sempre enormente lesivo dell’onorabilità delle persone anche solo indirettamente coinvolte.

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Le vittime delle inchieste sgangherate, pirotecniche nella fase preliminare e loffie al primo riscontro di un giudice terzo, le vittime esposte alle accuse più infamanti e alla rivelazione di dettagli privati sulle prime pagine dei giornali, vedono – se va bene – contenuta in un trafiletto la notizia del non luogo a procedere. E l’incongruenza, la sostanziale ingiustizia di questa situazione di squilibrio, di mancanza di un principio d’inibizione, deve essere sanata. Per quanto tempo, quante volte è consentito a un singolo pubblico ministero d’intraprendere a ripetizione clamorose iniziative giudiziarie che il più delle volte non arrivano nemmeno al rinvio a giudizio? Quante volte un magistrato accusatore può dimostrarsi nella migliore delle ipotesi un incapace (il suo lavoro consiste nell’ottenere condanne, se non le ottiene non fa il suo mestiere) e nella peggiore delle ipotesi affetto da manie di protagonismo, un propalatore d’intercettazioni a grappolo? L’accusa penale è uno strumento assai potente che se usato per finalità diverse da quelle istituzionali, o con palesi violazioni ed errori, diventa un pericolo per tutti. E allora perché i magistrati, perché l’associazione nazionale (Anm), e pure i togati del Csm, loro che si oppongono in virtù dell’indipendenza della magistratura a ogni tentativo di riforma dell’ordinamento giudiziario, loro che si sono opposti all’introduzione della responsabilità civile, o alla semplice regolamentazione delle intercettazioni, non fanno uso della loro vigorosa indipendenza per isolare e sanzionare loro stessi quei colleghi che a ripetizione sembrano lavorare più per i giornali e le televisioni che per la giustizia? Se in ospedale un chirurgo sbaglia due, tre, quattro operazioni, la quinta ovviamente non gliela fanno fare: è il direttore sanitario (mica il Parlamento) a fermarlo, a trasferirlo, ad assegnargli un altro incarico. E nella giustizia? Niente.

Fare comizi in piazza con la toga ancora sulle spalle (Antonio Ingroia), oppure candidarsi dopo aver aver chiuso delle indagini sulla politica (Luigi De Magistris), era apparso un po’ troppo anche nel paese che fu di Antonio Di Pietro. Si trattava di casi così paradossali che avevano messo d’accordo tutti, destra, sinistra e pure, timididamente, anche l’Anm. Ma i casi De Magistris e Ingroia non sono stati risolti dalla magistratura autonoma e indipendente, bensì dagli stessi interessati, che hanno sciolto l’equivoco e si sono candidati alle elezioni liberando l’ordine giudiziario dalla loro presenza. Intanto, chi ha condotto inchieste spericolate e prive di riscontri ha violato i vincoli, peraltro assai labili, della discrezionalità nella raccolta e divulgazione delle intercettazioni, per poi, quando i suoi teoremi si sono dimostrati castelli di carta, abbandonare tutto e ricominciare con un’altra clamorosa inchiesta flop, è ancora lì, con la toga, solo perché ha avuto il buon senso e l’intelligenza cinica di non candidarsi alle elezioni o di dedicarsi direttamente alla fiction giornalistica. Giorgio Napolitano, qualche anno fa, rivolgendosi ai giovani magistrati, aveva invitato le toghe a non incorrere nei guasti tipici del protagonismo giudiziario. Quell’invito è rimasto lì, sospeso, evidentemente non accolto. Cari magistrati, la vostra indipendenza finisce dove comincia Woodcock. O ci mettete una pezza voi, oppure non lamentatevi se, nell’urgenza inderogabile di un intervento, se ne occupa la politica.

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