La battaglia nelle grandi città, sfida fra candidati a colpi di slogan

Categoria: Italia

Cosa dicono i programmi e che visione hanno delle metropoli gli uomini e le donne che vorrebbero guidarle per i prossimi cinque anni

28/05/2016 A CURA DI ALBERTO MINGARDI,  La Stampa

Il giornalista inglese Matt Ridley sostiene che cresciamo perché «le idee fanno sesso»: il motore del cambiamento risiede nel fatto che scoperte scientifiche, innovazioni produttive, idee di prodotto mi mescolano, costruendo novità l’una sull’altra.

Se «le idee fanno sesso», «dove» lo «fanno»? La risposta è: sicuramente nelle città. La città è il centro degli scambi. Le istituzioni che tutt’ora consideriamo indispensabili a garantire lo sviluppo economico sono nate al suo interno: il riconoscimento dei diritti di proprietà, la tutela dei contratti, le mura che preservano l’integrità delle persone e dei loro beni. 

Oggi il 54% della popolazione mondiale vive nelle aree urbane: nel 2050 dovrebbero essere il 66%. Che succederà nelle nostre città? Riusciranno ad attrarre intelligenze e persone, saranno laboratori d’innovazione, o diventeranno cartoline dal passato, luoghi che vivono solo di memoria? Sapranno «crescere», anche per dimensioni e popolazione? 

Le città prosperano o decadono a seconda di quanto sanno dare ossigeno all’energia imprenditoriale. Le imprese di successo producono esternalità positive, creano opportunità, sono una calamita per altre attività. Ma se il nostro Paese oggi è una selva impenetrabile di regole, lo stesso si può dire dei suoi Comuni, che di delibera in delibera, di regolamento in regolamento, scoraggiano l’investimento privato: si tratti di un nuovo impianto produttivo o di rifare una veranda. 

Le decisioni politiche «sul territorio» in Italia sono tradizionalmente pensate in un’ottica di «distribuzione» della ricchezza, di garanzie e favori offerti a specifici gruppi. Vogliamo tornare a creare ricchezza? Allora anche i Comuni devono fare la loro parte: semplificando e rimuovendo i troppi vincoli all’attività economica. 

Se la crescita passa dalle città, allora passa anche dalle elezioni del prossimo 5 giugno. Per questo abbiamo cercato di leggere i programmi dei maggiori candidati alla ricerca non dei dati politici, di appartenenza, ma delle loro ricette per lo sviluppo. 

TORINO - USATO SICURO O SVOLTA GENERAZIONALE 

La pianificazione economica non è una cosa del passato: esiste ancora, si chiama pianificazione urbanistica. Definendo come possono o non possono venire utilizzati gli spazi, di fatto si scelgono quali attività economiche potranno o non potranno svolgersi al loro interno. Si sottopone a pianificazione, per l’appunto, l’attività economica privata dei cittadini.

Che l’urbanistica sia pertanto cruciale nell’attività di un sindaco è ben chiaro a Chiara Appendino, che la mette al primo punto della sua agenda di governo. I servizi andrebbero “decentrati” per evitare il degrado delle periferie: si parla di scuole, ospedali, università, “parchi, uffici, trasporti, residenze popolari”. Forse però esiste pure una dimensione relativamente più «efficiente», per ciascuna di queste realtà: se non bastano due aule per fare un’università o due sale operatorie per fare un ospedale, ci sarà un motivo. Come la mettiamo? Ha priorità il tentativo di offrire un servizio efficiente, che non può prescindere dall’allocazione degli spazi, o il sogno di una città nella quale periferie e centro pari sono? Siamo sicuri che ogni zona della città debba avere servizi simili o vogliamo una sorta di «specializzazione funzionale»?

Con l’idea per la verità flirta anche il sindaco uscente Piero Fassino, che ricorda come i grandi progetti di trasformazione urbana che hanno investito Torino negli ultimi anni siano «policentrici».

Dove Appendino appare più convincente è nell’attacco all’inefficienza della macchina comunale, maturato nel corso della sua esperienza in Consiglio. Il suo è un programma a fasi ben definite. Al candidata cinquestelle propone un nuovo palazzo comunale (sede unica» che senz’altro aiuterebbe a meglio monitorare il lavoro dei dipendenti e fare efficienza nei processi; una radicale digitalizzazione delle procedure; una ridistribuzione del personale comunale secondo i carichi di lavoro. Lascia più perplessi la netta preferenza espressa per il «make» rispetto al «buy», per l’internalizzazione rispetto alla gara: è subordinata, ça va sans dire, a opportune analisi costi-benefici ma di fatto annunciata a priori.

Fassino, comprensibilmente, punta sui suoi risultati più che su nuovi progetti: ricorda di aver ereditato un Comune fortemente indebitato e che, se non ha «rinunciato agli investimenti», ha usato se non altro il buonsenso di realizzarli attraverso partnership pubblico-privato, limitando gli oneri per il contribuente.

Per la crescita economica di Torino negli anni a venire, il sindaco uscente assegna un ruolo significativo all’impresa privata, talora indirizzata dal pubblico, pensando soprattutto ai servizi innovativi. «Dall’innovazione verrà il lavoro»: auspica una commissione ad hoc (classico intramontabile dei programmi elettorali), e promette una romodulazione del procurement pubblico per sostenere le imprese sociali e l’economia circolare (riutilizzo rifiuti). Indica l’obiettivo di una città «a burocrazia zero», cosa che si tradurrebbe in una serie di sportelli unici ma soprattutto in un rapporto con la Pa semplificato e sempre più «on line».

Appendino, che punta molto sulla cultura, «principale strumento di crescita e sviluppo della società civile», si fa portavoce degli artigiani e del piccolo commercio. La candidata cinquestelle vorrebbe «riavvicinare i torinesi alle piccole attività locali», si oppone a nuovi centri commerciali, auspica una nuova regolamentazione «che privilegi la qualità dei prodotti venduti». E chi decide cos’è «qualità»? L’ennesima commissione, il suo equivalente telematico? Del giudizio dei consumatori, proprio non ci fidiamo?

MILANO - DUE MANAGER PER UNA POLTRONA 

Se la sfida che abbiamo davanti è tornare a crescere, chi meglio di un manager come sindaco? I milanesi possono scegliere addirittura fra due: Beppe Sala e Stefano Parisi. Chi scrive vota a Milano, e vota Parisi, lo sappia il lettore. Noi milanesi ci rendiamo ben conto di essere una città fortunata, anche se vincerà il candidato che meno ci piace. I due sono persone serie, d’esperienza, perbene, e in tutta evidenza hanno profuso un grande sforzo nella preparazione dei rispettivi programmi: l’uno e l’altro sono un’agenda di governo, non un volantino elettorale. 

Sia Sala che Parisi vogliono far leva su quella capacità di autogoverno più sviluppata a Milano che altrove. Per Sala è una questione di «partecipazione» e «ascolto» della cittadinanza: la regia resterebbe a Palazzo Marino.

L’ambizione di Parisi è dare concretezza a una parola spesso abusata, «sussidiarietà»: invertire il flusso delle decisioni, costruire «dal basso» senza che il governo cittadino si sovrapponga mai a iniziative sorte spontaneamente.

La differenza d’approccio si vede, soprattutto, sull’urbanistica. Sala, che si presenta in continuità con Pisapia, non può scrivere, come fa il suo competitor, che l’attuale Pgt «prevede innumerevoli vincoli» ma comunque propone «maggiore chiarezza all’impianto normativo». L’agenda di Parisi è precisa: libero cambio di destinazione d’uso a volumetrie esistente, incentivi per le riqualificazioni, eliminazione di ogni vincolo relativo alla progettazione degli interni degli alloggi.

La crescita passa anche dalla disponibilità degli spazi: è difficile fare sviluppo a prescindere dalla disponibilità di «luoghi».

Nei programmi di Parisi e Sala, si avverte la consapevolezza dell’antico spirito industriale della città. I due pensano di rinnovarlo attraverso la generazione di nuove imprese.

Sala si lancia ad ipotizzare una «Milano Start Up City» nella quale il Comune faccia il «broker per mettere in rete» le «forze attive già presenti in città» e un «programma pluriennale» sulla falsariga di quello promosso «dal governo cileno». Parisi vuole creare uno sportello unico e mettere a disposizione degli «start upper» immobili dismessi del Comune.

Se anziché parlare di «start up» lo diciamo all’italiana, nuove aziende, ci rendiamo conto che la cosa ha anche un importante risvolto sociale: una nuova impresa su quattro, a Milano, nasce grazie all’iniziativa di un immigrato.

La questione della gestione degli immobili del Comune e delle case popolari è al primo punto sia dell’agenda di Parisi che di quella di Sala. Quest’ultimo ha come obiettivo «zero case vuote». Parisi promette lotta dura all’abusivismo. Coltiva però anche l’idea di una sperimentazione che, nel lungo termine, porti a superare il sistema di offerta di edilizia pubblica, «sostituendolo con uno di sostegno alla domanda tramite voucher che coprano una determinata percentuale del costo di locazioni private».

Sala vincolerebbe a nuovi investimenti nell’edilizia sociale «l’eventuale cessione di parte di quote societarie», ovvero privatizzazioni, presumibilmente parziali. Sul tema, il candidato più preciso è uno che non ha chance di arrivare al ballottaggio, ovvero il radicale Cappato che venderebbe le partecipazioni in «Sea aeroporti, A2A, Milano Serravalle, Mm, Farmacie, Mercati comunali. Sogemi, Milanosport». Parisi è più cauto nell’indicare obiettivi specifici ma afferma un principio chiaro, a tutela del contribuente: la fornitura diretta di un servizio da parte del Comune «è giustificabile se e solo se il Comune dimostra di essere più efficiente del privato».

ROMA - UN’INCERTISSIMA CORSA PER MATTI 

Dopo l’esperienza della giunta Marino, verrebbe voglia di dire che al mondo ci sono matti di due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che pensano di poter governare Roma. Il matto col piano di battaglia più dettagliato è Alfio Marchini. 

Virginia Raggi ha presentato agli elettori una lista di undici «passi». La parola «sviluppo» arriva al punto decimo, e in coppia con «turismo»: come dire che le priorità sono altre.

Raggi dichiara guerra agli sprechi ed apre a iniziative di «partnership pubblico-privata», se «adeguatamente normate». L’impressione è che la sua sia una visione economica un po’ strapaesana: guarda alle «piccole e medie imprese locali e artigiane», pensa a un rilancio dell’edilizia per il tramite di «investimenti mirati sulla cura ed il decoro urbano».

Non è diversa la Weltanschauung di Giorgia Meloni, che ha l’indubbio vantaggio di promettere che «nessuna opera faraonica sarà finanziata fin quando non si risolverà il problema delle buche di Roma». Bene, brava, bis. Se non fosse che al rigore delle finanze pubbliche per il futuro, l’ex ministro unisce l’amnistia per il passato. Siccome con la legge di stabilità 2014 lo Stato ha riconosciuto a Roma 110 milioni l’anno di «extracosti» sopportati «per l’onere di essere Capitale», Meloni si è fatta due conti. Roma è capitale della Repubblica da oltre 70 anni e «se lo Stato riconoscesse una tantum gli “arretrati” alla città di Roma, potremmo azzerare il debito, risparmiando anche qualche miliardo di interessi»: 7,7 miliardi sono «una goccia nell’oceano del debito pubblico, che oggi ammonta a 2200 miliardi». Ma l’oceano è fatto di gocce, cosa che altrove sul territorio nazionale si ricorda meglio che nell’Urbe. È questo esercizio di finanza creativa il cuore dell’agenda della Meloni, secondo per potenza evocativa solo all’idea di un «albo delle baby sitter». 

Roberto Giachetti, che ha lungamente meditato il suo programma al punto da averlo presentato solo due giorni fa, si propone come sindaco del rilancio economico. Propone una Roma «StartUp City» (stessa parola d’ordine di Sala a Milano), con l’obiettivo di moltiplicare gli incubatori e attrarre fondi di venture capital. Il candidato del Pd, forte del rapporto privilegiato con il governo, ha nel cassetto un piano di misure «da cui stimiamo di ottenere 160 milioni di euro di risorse correnti e 300 milioni in conto capitale» ma non rinuncia almeno alla retorica dei conti in ordine: con lui, l’assessore al Bilancio sarà anche assessore alla Spending Review (apprezzabile che almeno la spending review non serva da scusa per un altro assessorato). 

Ma se persino Meloni, non certo una privatizzatrice, lascia aperta la porta a possibili razionalizzazioni delle partecipate, Giachetti parla di «semplificazione» del sistema e mai di dismissioni. 

Il programma di Marchini è un’enciclopedia: 101 punti. Anche dove c’è ampia convergenza fra i candidati, per esempio sull’aumento dell’investimento in rete tranviaria, il costruttore romano spicca per precisione. Se non mancano proposte civetta, Marchini, mentre non c’è candidato in Italia che non si schieri contro Uber, suggerisce che gli Ncc sono troppo pochi, ammette che il car sharing pubblico è stato un fallimento mentre funziona quello privato, scrive a chiare lettere che è «incredibile» che il Comune abbia due aziende agricole di proprietà e produca mozzarelle e uova. È il candidato che più chiaramente lascia capire che la valorizzazione del patrimonio artistico, oggi, si fa con gli sponsor e coi privati. Matto e pure «efficientista».

NAPOLI - L’USCENTE SOGNA, LA SFIDANTE È CONCRETA 

Antonio Martino figura nell’Oxford Dictionary of Humorous Quotations per una formidabile battuta del 2002. A Milano i semafori impartiscono istruzioni, a Roma danno suggerimenti, a Napoli sono decorazioni natalizie esposte tutto l’anno. La cosa dev’essere ben nota ai candidati sindaco napoletani. 

Il sindaco De Magistris, forte di «cinque anni di duro lavoro» in cui ha «raggiunto grandi risultati, “ancora più ragguardevoli” considerate le condizioni di partenza», filosofeggia sui «beni comuni» e il senso della democrazia. Il governo «del popolo e per il popolo» avrebbe ritrovato respiro, a Napoli, grazie alla «costituente dei beni comuni» che ha portato alla «definizione di 6 consulte, corrispondenti a 6 macro aree tematiche». Nella capitale della democrazia partecipata, De Magistris vanta come successo la delibera sul reddito minimo, che pure dovrà essere votata col bilancio di previsione, dopo le elezioni, e per la quale non è ben chiaro da dove venga la copertura. Il sindaco è convinto che si esca dalla crisi «rilanciando i consumi» (presumibilmente a spese del contribuente) e non lesina lezioni di economia. La sua amministrazione «ha fatto e farà sempre di più per le imprese, i mercati e il privato», sbloccando piani urbanistici attuativi e scommettendo su tavoli di lavoro fra Università e imprese. Gli spazi del mercato però si fermano sulla soglia dei servizi ai cittadini. Insomma, il privato stia a cuccia.

La sua concorrente Valeria Valente stupisce con un raffinato calembour come «Napoli vale» (ha passione per i titoli evocativi: da «Eppur si muove» a «Napoli corre») ma mostra più concretezza. Parla chiaramente di cessioni di quote delle municipalizzate e, soprattutto, di vendita del patrimonio immobiliare per reperire risorse. Il programma di Valente è permeato dall’idea che il patto piange: quindi porte aperte alle partnership pubblico-private, alla messa a gara almeno di alcuni servizi, eccetera.

Articolato in una più sobria serie di slides, il programma di Gianni Lettieri punta invece alla riqualificazione di siti attualmente abbandonati, per la creazione di tre poli produttivi in cui insediare «micro-imprese e artigiani». Fra i tre papabili sindaco, Lettieri è quello che sembra più attento a offrire sollievo dai rigori della crisi: nei tre poli ricavati dai siti abbandonati ci saranno servizi di gestione comune, per sgravare gli artigiani da mansioni fuori dalle loro competenze, e fitti calmierati. 

Lettieri è un keynesiano coi soldi degli altri: è con l’assalto ai fondi europei disponibili che vorrebbe generare «48.000 nuovi posti di lavoro in 26 mesi». Anche il candidato della destra pensa a un reddito «di sostegno sociale», per i capifamiglia over 50 che hanno perso l’impiego. In quest’agenda d’impianto paternalistico, spunta a sorpresa l’idea di vendere le case popolari agli attuali inquini. Proposta antica e di buon senso. In questo modo, persone che hanno una modesta dotazione di proprietà potrebbero accrescerla, la proprietà instillerebbe un senso di responsabilità nei confronti del proprio immobile e del proprio quartiere, il Comune risparmierebbe sui proibitivi costi di manutenzione e monitoraggio.

Sia De Magistris che Valente sono pazzi per i «centri commerciali naturali». L’espressione indica sostanzialmente dei distretti nei quali gli esercizi di vicinato si aggregano in un consorzio, cercando di «rilanciare» una certa zona della città. Lodevolissimo, ma perché chiamarli «centri commerciali naturali»? Che hanno, del resto, di «naturale» un calzolaio o una drogheria? Più le formule sono fumose, però, e meglio si prestano a promettere interventi e sussidi.

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