Elitario e poco popolare, il Pd ha bisogno di una nuova base sociale

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La mappa del voto nelle metropoli sottolinea un cambiamento dell'elettorato democratico. L'intuizione di uscire dalla logica della lotta di classe è giusta, ma facendolo così si perde la massa popolare (che non ha più punti di riferimento)

di Redazione | 07 Giugno 2016 ore 15:18

Alcuni tra i dati forniti dalle votazioni di domenica scorsa – soprattutto quelli dell’affluenza crollata proprio in città amministrate abbastanza bene come Torino e Bologna e la distribuzione territoriale del voto che penalizza il Pd nelle periferie metropolitane, una volta serbatoio elettorale della sinistra – sembrano esprimere una difficoltà profonda per il renzismo di assicurarsi una base sociale.

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Il supporto delle rappresentanze di impresa e di qualche organizzazione sindacale, come la Fismic, tradizionalmente orientate al centro, non è in grado di surrogare il disincanto dell’elettorato popolare. Quello che viene chiamato con immagine suggestiva il “Cesare democratico” viene percepito come estraneo alla contrapposizione tra capitale e lavoro, propugnatore di una concezione della collaborazione sociale come base della produttività e della crescita. Il messaggio è innovativo e adeguato alla situazione reale, ma contraddice la vecchia narrazione di una politica come espressione della classificazione sociale e il conflitto sempre riconducibile alla “lotta di classe”, cui il marxismo, anche nella versione socialdemocratica, attribuiva la funzione di motore della storia.

Il Partito democratico, letto nelle sue caratteristiche sociologiche e culturali, è la sede privilegiata di questa contraddizione, tra un ceto piuttosto elitario, residente nei centri storici, ma legato a una concezione classista, e la massa popolare delle zone periferiche, che non ha più punti di riferimento e si fa attirare dalle offerte politiche che si presentano come innovative o protestatarie. Un’organizzazione di partito di questo tipo invece di esercitare una funzione di raccordo tra scelte politiche di governo ed elettorato diffuso, diventa una specie di intercapedine che ostacola il dispiegarsi del “cesarismo democratico” e diventa sede di una rissa continua e autoreferenziale. La speranza che le primarie di per sé superassero questo corto circuito ormai si è dimostrata illusoria e questo induce a una riflessione poco ottimistica sulla possibilità di correggere in modo indolore i difetti di una forma partito che sembra oggettivamente autodistruttiva.

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