Il femminicidio ha finito per dissolvere la teoria del gender

Categoria: Italia

Si dimostra il non senso della teoria del gender. Prevale nella nostra società l'idea che non esiste una natura umana oggettiva, ma che tutto, anche la differenza tra maschio e femmina, deriva dal contesto sociale

 di Gianfranco Morra Italia Oggi 9.7.2016

Femminicidio: una parola male inventata, che purtroppo si riferisce a una terribile piaga sociale. Le deplorazioni, spesso sincere ma anche programmate per fini di consenso politico, sono tante. Molto si fa per estirparlo o almeno limitarlo, ma senza risultati. Non consola neppure il fatto che l'Italia sia, in Europa, negli ultimi posti. Il numero delle donne uccise, quasi sempre in famiglia, è sempre rilevante: anche 150 ogni anno. È vero che molto più alto è il numero dei maschi uccisi, non di rado malavitosi. Ma il femminicidio è quasi sempre una vendetta, che colpisce la più debole: mi vuoi lasciare, ti uccido, anzi ti brucio. O almeno ti sfiguro per sempre.

Una riflessione sul femminicidio ha condotto alcuni studiosi non conformisti (ricordati da Alain de Benoist in Contro l'ideologia del genere, Circolo Proudhon, Roma, pp. 62, euro 5) a una interessante conclusione, di cui il «politicamente corretto» preferisce non parlare. Esso dimostra il non senso della teoria del gender. Prevale nella nostra società l'idea che non esiste una natura umana oggettiva, ma che tutto, anche la differenza tra maschio e femmina, deriva dal contesto sociale. Una dottrina valida solo in parte: la società condiziona le differenze naturali, ma può solo accentuarle o indebolirle, non produrle.

Basterebbe la storia del femminismo, che certo ha mutato profondamente la situazione sociale della donna, anche in bene, senza con ciò trasformare la sua natura. Molti studi di psicologia comparata hanno mostrato che le differenze sessuali appartengono già alla vita intrauterina e non riguardano solo gli organi sessuali, ma anche il comportamento. Sin dai primi giorni di vita, i maschi prediligono oggetti meccanici e in movimento, le femmine cercano il volto umano. In tutte le culture, nella scelta dei giochi, i maschi vogliono macchine, palloni e armi, le femmine bambole, oggetti da cucina e trucco. Un condizionamento sociale? Per niente, questa diversa scelta vale anche per i piccoli delle scimmie antropomorfe.

Nelle femmine prevale il rapporto verbale, nei maschi quello video-spaziale. In tutte le fasi dell'età evolutiva le femmine mostrano maggiore empatia per gli altri, i maschi maggiore estraneità. Nel corso della vita, l'aggressività e il rischio saranno soprattutto maschili (anche perciò gli uomini vivono meno delle donne). Come la criminalità e i delitti, compreso il femminicidio, triste e sicura testimonianza della differenza naturale tra i sessi. Niente è più cervellotico e ridicolo della teoria del «gender», nella quale il soggettivismo moderno si dissolve nel narcisismo postmoderno. A esso si contrappone la perenne saggezza dell'Europa, espressa dalla nota massima medievale: «Tu puoi cacciarla col forcone, ma la natura torna sempre di nuovo» (naturam expelles furca, tamen usque recurret). Perché essa, come afferma Laerte in Hamlet, «conserva il suo costume» (nature her custom holds).

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