Urbano Cairo e il suo tocco secondo noi

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Dunque Cairo. Cordiale, spiritoso, incredibile conoscitore di questo giornale, dei suoi bilanci, dei suoi giornalisti e giornaliste, delle sue scelte di gusto e di stile

Urbano Cairo, con il Corriere della Sera in mano (foto LaPresse)

di Giuliano Ferrara | 17 Luglio 2016 ore 06:00

Urbano Cairo l’ho incontrato due o tre volte. Battevo cassa, come mi è spesso capitato di fare in vent’anni di Foglio, nonostante l’aiuto austero di Berlusconi e i contributi pubblici di cui sono sempre andato orgoglioso (come la Scala è orgogliosa dei suoi: noi cantiamo altrettanto bene e gli orchestrali sono al top). I contributi da un certo punto in avanti furono fortemente ridotti fin quasi all’azzeramento, e non per quei dementi dei grillini, ci pensò il moralizzatore della spesa pubblica Giulio Tremonti a “non distinguere” tra quelli che ruminavano quattrini alla greppia e quelli che facevano un lavoro di qualità e di tendenza culturale che ovviamente non ha mercato in senso commerciale (come noi e il Manifesto): con la cultura non si mangia, diceva allora il Tremonti Furiosus.

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Dunque Cairo. Cordiale, spiritoso, incredibile conoscitore di questo giornale, dei suoi bilanci, dei suoi giornalisti e giornaliste, delle sue scelte di gusto e di stile (il direttore Claudio Cerasa venne una volta anche lui e mi disse sornione: “Metto la maglia di Quagliarella?”). Dunque Cairo. Tocco berlusconiano per farsi ricordare sempre come persona disponibile, il sì e il no non sono un problema per i grandi imprenditori e manager, è il “come” il vero problema. Una volta venne Piero Vietti o Jack O’Malley, non ricordo, mi sembrava spiritoso (anch’io ho un lato berlusconiano e calcistico, dopo anni di esperienza) presentarmi con un torinista bestiale, e per lubrificare ulteriormente l’incontro ricordai al presidente granata che nei miei dieci anni di Torino, i miei venti anni, ero nemico giurato della Gobba e vinsi uno scudetto con il Toro di Pulici e Sala. Fantozzi puro. Fu un buco nell’acqua. Aveva giustamente ambizioni diverse, ci voleva altro che la reputazione, la curiosità, l’influenza del piccolo grande giornale: Cairo intendeva consolidare le sue imprese, far quattrini (non proprio la nostra specializzazione, di noi amanti del pareggio o breakeven), guardarsi intorno e poi affondare il colpo per passare da 250 a un miliardo e più di fatturato sottraendo il Corriere della Sera ai suoi azionisti storici, salvo gli eredi Bazoli che stanno dalla sua parte, con un piano industriale di rottura rispetto alle esperienze più o meno mediobanchesche. Gli “arzilli vecchietti” (Diego Della Valle) qualche volta possono rendersi utili.

Che cosa Cairo voglia fare della sua nuova creatura in senso editoriale e commerciale si sa: tornare a buoni profitti, investire, contrastare il declino cosiddetto dei quotidiani, delle loro tirature, del loro mercato pubblicitario, della loro distribuzione, della loro fruizione come abitudine d’acquisto in carta e on line. E deve farlo senza perdere in autorevolezza, apertura internazionale, fronteggiando la concorrenza di un gruppo De Benedetti in forte espansione e capace di nuove alleanze, contrastando qualche cattiva abitudine corporativa dell’epoca delle vacche grasse. Compito non facile. Ma se non ci riesce un editore che ha fatto la gavetta nella pubblicità, che conosce i costi da tagliare e i gusti del pubblico, se non ci riesce uno così amico del mercato non ci riesce nessuno. Lo dice una visione saggia, proverbiale, popolare delle cose.

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