Quanti morsi ha la mela di Renzi

Categoria: Italia

Il logoramento del premier, il nuovo terreno di gioco, il percorso di Parisi, l’economia e la carta per evitare lo stritolamento: utilizzare il referendum come deadline per abbassare le tasse. Lo schema c’è e vale dieci miliardi

di Claudio Cerasa | 30 Luglio 2016 ore 06:00 Foglio

Ma quanti morsi ha la mela di Matteo Renzi? Il logoramento del presidente del Consiglio è un classico tema che trova spazio tradizionalmente nelle sguarnite pagine estive dei giornali e come ogni luglio anche quest’anno non poteva non esserci l’immancabile scenario apocalittico che vede, neanche fosse un allenatore dell’Inter, il capo del governo a un passo dal non mangiare il famoso panettone. Fatta la tara dunque al rituale sogno anti premier di una notte di mezza estate occorre capire se il logoramento del presidente del Consiglio sia un semplice topos estivo o sia invece qualcosa di più. E qui arriva la ciccia della questione. Matteo Renzi non crede che ci sia un problema legato alla sua persona e, forte dei sondaggi in leggera risalita e dei numeri incoraggianti che arrivano dal Jobs Act, è convinto che una volta superata l’estate la bolla anti renziana si sgonfierà, il fronte del No al referendum si perderà nelle sue contraddizioni, il paese economicamente reggerà e tutto tornerà come prima. L’ottimismo, a volte anche eccessivo, è l’essenza del renzismo, si sa, e non c’è dubbio che una volta superati gli stress test delle banche (e una volta risolto con una soluzione di mercato il caso Mps) la strada che separa il presidente del Consiglio dal referendum potrebbe tornare a essere meno in salita di come appare oggi.

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 Ma nonostante questo, non si può non notare che i morsi alla mela renziana ci sono, sono sempre più profondi, e derivano da due problemi speculari che se non risolti per tempo rischiano di stritolare il nocciolo del renzismo. Riassumiamo a costo di dover semplificare. La sinistra, quella che si trova nel Pd e non solo, considera Renzi un nemico più pericoloso di quanto non lo fosse un tempo Berlusconi (“sei un traditore!”) e accusa il segretario del Pd, con costanza martellante e logorante, di aver portato il partito su posizioni di destra (“il Pd non esprime più i suoi valori”, ha ripetuto ieri Pier Luigi Bersani). La destra, invece, inizia a considerare Renzi un politico che ha avuto le giuste intuizioni per migliorare il paese (a partire dal Jobs Act) ma comincia a dubitare (“ma non lo vedi che è un bluff!”) che quelle intenzioni possano tradursi in realtà se a portarle avanti è un leader che permette alla sua sinistra di tenere in ostaggio il suo partito. Il primo morso, quello della sinistra, Renzi è riuscito a limitarlo fino a quando ha incassato successi elettorali. Ma dopo il mezzo passo falso delle amministrative la linea esplicitata dall’ingegner Carlo De Benedetti (“Renzi rischia di essere il Fassino d’Italia”) è diventata diffusa, seppure in modo silente, anche nel mondo renziano. Il secondo morso, invece, quello della destra, Renzi è riuscito a limitarlo grazie a una condizione straordinaria di cui ha goduto a lungo (e di cui in parte gode ancora) e che ha portato l’elettore di centrodestra ad allontanarsi dal suo mondo di riferimento (vedi le Europee del 2014) solo per mancanza di una leadership diversa dalla figura del padre nobile (Berlusconi). E’ presto per dire se il percorso ambizioso di Stefano Parisi riuscirà a spingere verso il centrodestra i delusi del renzismo che poi spesso coincidono con i delusi del berlusconismo. Ma non c’è dubbio che in presenza di una leadership alternativa e credibile nel centrodestra, Renzi si troverebbe di fronte a una situazione di questo tipo: da un lato avrebbe un alleato utile per depotenziare il Movimento 5 stelle, dall’altro avrebbe un avversario intenzionato a giocare una partita sul suo stesso terreno e con i suoi stessi elettori.

Accanto a questi morsi ce ne sono poi altri con cui il presidente del Consiglio deve fare i conti e ci vorrebbero ore per metterli insieme – l’operazione personalizzazione del referendum che non prende il volo, la crescita del paese che non sarà positiva come Renzi sperava, il partito che non funziona come dovrebbe, il rallentamento delle riforme strutturali (giustizia, ma non solo) causato dalla campagna referendaria, l’opportunità di modificare una legge elettorale che Renzi non vuole cambiare ma sulla quale non interverrà per dare l’illusione di essere pronto a cambiarla. Ma alla fine dei conti non c’è dubbio che l’unica carta che il premier ha a disposizione per tornare a mordere in politica e non farsi più rosicchiare consenso è legata al grande appuntamento di ottobre che sta determinando lo spostamento più in là della data del referendum: la costruzione di una legge di Stabilità, da approvare alla Camera entro ottobre, che permetta a Renzi di ridare ossigeno non solo al suo bacino elettorale ma soprattutto ai polmoni del paese. Lo schema di Renzi non è ancora stato esplicitato ma appare piuttosto lineare ed è simile al tono che assumerà la campagna elettorale per il referendum avvicinandoci alla data del voto: se la riforma costituzionale non verrà approvata ci sarà il diluvio e arriverà Di Maio.

Far leva con le cancellerie europee sul timore di ritrovarsi a dicembre con un governo tecnico capace di alimentare la bolla grillina è una tattica finalizzata a ottenere un risultato simile a quello incassato nel silenzio pochi giorni fa dalla Spagna e dal Portogallo: un’ulteriore manciata di flessibilità della Commissione europea sui conti con conseguente raccomandazione all’Ecofin di annullare le multe ai due stati per non aver rispettato gli impegni di bilancio negli anni 2013-2015 e in virtù di una “situazione economica eccezionale” e dei “grandi sforzi che hanno portato all’approvazione di riforme strutturali importanti”. In questo quadro la partita di Renzi è quella di ottenere dieci miliardi in più dalla Commissione europea da utilizzare nella prossima legge di Stabilità – non per sforare il deficit del tre per cento ma per superare quell’1,8 per cento che l’Italia si è impegnata a raggiungere il prossimo anno nel rapporto deficit/pil – e avere così un tesoretto sufficiente per intervenire sull’Irpef, sull’Ires e sulle pensioni minime.

Abbassare le tasse in modo credibile strutturale, pur utilizzando un metodo che finora non ha portato fortuna (finanzia le tasse aumentando la spesa), è l’unico modo possibile per ricomporre la mela ed evitare che si concretizzi un fenomeno che il presidente del Consiglio non vede ma che oggi è possibile: il progressivo stritolamento del renzismo. L’estate naturalmente amplifica tutto e di solito l’aumento del caldo è inversamente proporzionale alla solidità dei complotti contro un leader. Ma per la prima volta i morsi alla mela del premier rischiano di far somigliare il renzismo a qualcosa che è più simile a un frutto bacato che alla Apple di Steve Jobs. Tre mesi di campagna elettorale rischiano di far aumentare i morsi alla mela. Ma come direbbe Charles Baudelaire c’è solo un modo di dimenticare il tempo: cominciare rapidamente a impiegarlo.

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