Sono di parte le cause delle fine della prima repubblica. Ma tant'è, con la storia non si scherza e cambiarne la narrazione è proprio impossibile.
di Domenico Cacopardo, Italia Oggi 2.9.2016
Un moto di autolesionismo mi ha indotto a comprare e a leggere, in questi giorni, «Rivoluzione socialista», la celebrata opera di Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana, possibile (uno dei tanti) competitori di Matteo Renzi nella direzione del Pd. Non che il titolo invogliasse.
La parola «rivoluzione», abusata nei secoli, dalle bande stile «Brigate rosse» e, da ultimo, dall'articolato mondo antagonista del «No» (Tav, Ponte, Termovalorizzatori, Expo, etc.) può indurre agli equivoci più disparati e, comunque, appare più la riesumazione vintage di un concetto desueto e inattuale che una credibile e attrattiva proposta per il futuro.
Peggio ancora l'aggettivo «socialista», simbolo in Italia dei disastri morali della prima Repubblica e di un'area politica eccessivamente ed erroneamente criminalizzata.
Ma tant'è, con la storia non si scherza e cambiarne la narrazione è proprio impossibile.
Comunque, mi sono inoltrato nell'istruttiva lettura come per il compimento di un dovere: visto che il Pd, cui appartiene Enrico Rossi, è una delle gambe forti su cui si sostiene il sistema, è bene approfondire nell'interesse proprio e dei lettori cosa vi bolle in pentola, soprattutto nell'area che intenderebbe battere Renzi e sostituirlo.Cogliamo, perciò fior da fiore.
« l'errore tragico della sinistra nel mondo occidentale. Avere disertato la critica del capitalismo, aver voltato le spalle alla sua fede storica » Non c'è nemmeno Bad Godesberg (il luogo dell'archiviazione, da parte della socialdemocrazia tedesca, del massimalismo marxista), in queste considerazioni, il cui la Storia (che è la bussola della Filosofia della prassi, fondamentale per l'analisi, appunto, marxista) viene rimossa. La Storia ha certificato la vittoria del capitalismo e la necessità che la crescita dell'uomo sia trovata nelle libertà d'intrapresa e di commercio. Come, in verità, si sta realizzando, visto che qualche miliardo di uomini è uscita dalla cosiddetta area della fame.
« «Tangentopoli» è stata la fine dei partiti di massa e ha condotto alla nascita dei partiti personali, fino al trionfo di Silvio Berlusconi, che è stata la vera rottura del linguaggio politico, l'irruzione sulla scena di una carica di individualismo antistatale e antiistituzionale distruggendo la dimensione di appartenenza comunitaria.»
Anche qui –e purtroppo- manca un'analisi delle cause della fine della prima Repubblica, insieme a un'inaccettabile sommarietà di giudizio. Con «Tangentopoli» non nascono i partiti personali: nasce un'area melmosa di naufraghi dei partiti tradizionali, sino alla comparsa sulla scena del partito di Berlusconi, il primo partito personale dopo l'Uomo qualunque di Giannini e il Partito radicale di Pannella, ma con una novità assoluta: partito personale e padronale, visto che tutte le risorse necessarie per lanciare a affermare l'iniziativa venivano dalle casse personali del leader.
« con Renzi non siamo di fronte a una terza Repubblica, neanche con la riforma costituzionale. Piuttosto parlerei di una «capacità di tenuta», di riformismo «quanto basta» senza una visione della società e del futuro »
E poi: « si è aperta un'enorme contraddizione tra capitale e democrazia »
Leggendo le due proposizioni unitariamente, possiamo scorgere tutta la vecchiezza del ragionamento e l'incapacità di percepire il mondo contemporaneo, che, del resto, rimane fuori dalle stanze delle regioni tradizionalmente comuniste, tutte volte a mantenere un controllo spasmodico della società.
In Toscana (come in Emilia-Romagna) il metodo di governo è stato mutuato dal modello polacco di una democrazia fortemente consociata, nella quale il partito più partito degli altri è il dispensatore totalitario dei benefici che possono provenire dall'istituzione.
La medesima storia del Monte dei Paschi di Siena, sino alle ultime evoluzioni, mostra una capacità di controllo totalizzante dei fenomeni che si svolgono nella società, tale da riassorbire il più grande scandalo bancario nazionale, dopo quello della Banca romana ai tempi di Giolitti (Giovanni). Con la differenza che tutti i risvolti della vicenda sono stati tenuti sotto controllo mediatico e sociale, talché, a parte l'avventuriero Mussari, non si conosce il coacervo delle complicità che ha operato nella società civile.
E poi la « visione antistatale è all'origine del calo continuo di produttività, della scarsa crescita anche rispetto agli altri Paesi europei »
Si tratta di un'affermazione «schizofrenica», nel senso che deforma i dati della realtà economica e sociale per assolvere il colpevole del danno (l'apparato pubblico) dalla sua colpa. Come emerge in tutto il mondo occidentale, lo Stato è un pessimo allocatore di risorse. Un euro sta meglio ed è meglio speso se rimane nelle mani del cittadino, invece di transitare in quelle voraci dello Stato.
Qui, hic et nunc, noi italiani paghiamo ancora il prezzo salato di una democrazia consociativa che ha usato lo Stato per ottenere la pace sociale a scapito della democrazia competitiva che domina ovunque.
Un modello, quello prospettato da Enrico Rossi, che può incontrare il consenso del neoperonismo diffuso ai nostri tempi in Italia dal papa populista che viene proprio dalla terra della teologia del popolo («il popolo non sbaglia mai, è la parola di Dio che viene dal popolo». Ma decenni di regimi peronisti dimostrato il contrario), ma che è inaccettabile nel mondo contemporaneo. L'idea sembra che la ripresa passi dallo Stato (e, quindi, dalle Regioni) è vetero-socialismo, ritorno agli anni '20 di Weimar e Leningrado.
Non c'è dubbio, ormai, che il richiamo allo Stato come motore dello sviluppo è del tutto sbagliato e fuori dal tempo e rievoca vecchie ubbie di programmazione «socialista», portate alla ribalta da Giorgio Ruffolo e da una squadra di studiosi e di manager legati al Psi, alla Cgil e alla Cisl, rapidamente fallita. Il rapporto tra competitività e Stato è rappresentato in modo eccellente da un prospetto diramato di recente dalla Banca Mondiale.
L'Italia, la Nazione che più segna il passo nel percorso di recupero economico, è però la Nazione in testa per prelievo fiscale sulle società: il 64,8% rispetto al 48,8% della Germania, al 32% del Regno Unito, al 43,9% degli Stati Uniti e al 28,8% della Svizzera. Tutti soldi, questi, che passano dalle casse dell'azienda e dell'imprenditore alle casse dello Stato.
Chi li spenderà peggio? Non c'è dubbio che la stragrande maggioranza degli esperti e anche degli italiani dirà che lo Stato è il peggiore spenditore del mondo e non per la corruzione, ma per l'ontologica dissipazione del denaro degli altri.
Per queste semplici ragioni, questo trattato-intervista (e ci spiace che un politico valoroso, già direttore dell'Unità come Peppino Caldarola, un riformista, abbia prestato la propria penna a un'operazione del genere) va archiviato nel cestino delle cose inutili e vecchie, incapaci di suggerire un'idea che è un'idea.
Comunque, tranquilli renziani della prima, della seconda e dell'ultima ora. Se questa è la minestra superirscaldata che offre un aspirante segretario del Pd, concorrente del vostro leader potete stare stratranquilli: acqua fresca in bicchieri ombrati di vecchiume.
Ha una sola chanche, Rossi ed è il kombinat che il Pci ha costruito in Toscana e si compone di una rete di centri di interesse: le cooperative, più fondate sulla ricca distribuzione che sulle costruzioni; le banche di credito cooperativo, presenti ovunque; il complesso delle iniziative di presunto volontariato sussidiato.
Decine di migliaia di famiglie che vivono e prosperano intorno a ciò che nasce e prospera intorno al partito «garante». Una macchina da guerra la cui fedeltà non è assicurata dagli ideali, ma dagli interessi.
Perciò Enrico Rossi non può essere liquidato (come candidato) per le vecchie idee, ma seguito come un solido gerarca di periferia, di quelli che hanno comandato nell'Urss, e in Italia, il Paese meno decomunistizzato (nel senso del socialismo reale) del mondo, a parte la Corea del Nord, Cuba e, forse, il Vietnam.
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