Il segretario apre alla modifica della legge elettorale ma lo scontro con la sinistra rimane forte: la battaglia non è sui dettagli ma sull’identità “tradita” del Pd. Cosa rischia Renzi in mezzo alla palude delle correnti
di Claudio Cerasa | 11 Ottobre 2016 ore 06:00
Proviamo a mettere per un attimo da parte la tattica e andiamo alla ciccia della questione, al succo della violenta dialettica politica che vede come protagonisti Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani.
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Durante l’attesa direzione del Pd di ieri, il segretario democratico ha scelto di non interrompere il dialogo con la minoranza e nonostante le dichiarazioni impegnative registrate domenica scorsa sui giornali (Bersani e Speranza, ex segretario ed ex capogruppo, hanno annunciato il loro No al referendum, in mancanza di una concreta proposta di revisione della riforma elettorale) Renzi ha scelto di provare a tenere il partito compatto, come si dice in questi casi, concedendo nella sostanza quello che la sinistra Pd chiede da mesi: la disponibilità a ridiscutere la legge elettorale in tutti i suoi punti (ballottaggio, premio alla lista, modalità di elezione dei parlamentari) con promessa di calendarizzare le modifiche all’Italicum in commissione dopo il voto sul referendum.
La minoranza del Pd ha apprezzato il segnale, come lo ha chiamato Cuperlo, offerto dal segretario e un accordo politico per non far esplodere il Pd prima del referendum potrebbe non essere più impossibile.
Il punto centrale della questione è che il referendum costituzionale tende sempre più a somigliare a una gigantesca operazione di stress test sulla vita del Partito democratico.
Giorno dopo giorno è sempre più evidente che dietro la miccia bersaniana non c’è solo una disquisizione sui dettagli di una legge elettorale ma c’è un più generale e radicale rifiuto messo in campo contro un’idea di paese rappresentata da Renzi che come onestamente ammesso da Cuperlo può portare alla deflagrazione del Pd. Un rifiuto che riguarda alcuni elementi cruciali della vita della sinistra: il rifiuto di promuovere una rivoluzione costituzionale che prevede il passaggio da una democrazia fondata sul potere delle assemblee a una democrazia fondata sul potere degli esecutivi; il rifiuto di considerare legittima la scelta di inseguire gli elettori di centrodestra per permettere a un partito di sinistra di governare; il rifiuto categorico di considerare un’esperienza fallimentare l’idea di scommettere su una sinistra che si occupa solo di fare la sinistra delegando a un qualche partito di centro il compito di rappresentare l’elettore di centro. E’ sulla base di questi tre rifiuti identitari che si articola la dialettica tra Bersani e Renzi ed è sulla base di questi tre elementi che la sinistra del Pd ha scelto di combattere contro il segretario del Partito democratico una battaglia che può portare anche alla morte del Partito democratico. Per la semplice ragione, è questo il vero non detto di Bersani, che il progetto incarnato da Renzi non è solo un’idea alternativa a quella della sinistra del Pd ma è un’idea eretica, blasfema, e come tutte le idee eretiche deve bruciare nell’inferno della politica. Non è dunque solo un dibattito sul premio di lista o sulla modalità di elezione dei senatori. E’ un dibattito identitario all’interno del quale la sinistra del Pd giustifica ogni mezzo – persino considerare il presidente del Consiglio un dittatore in miniatura – per raggiungere il proprio fine. La posizione di Bersani, di fronte alla quale naturalmente ognuno può avere l’idea che crede, è che ha due difetti di fondo. Il primo, banale, è che il modello di Pd che sogna l’ex segretario del Pd non è soltanto un modello che non funziona in nessuna parte del mondo ma è un modello che lo stesso Bersani ha sperimentato tre anni fa alle elezioni, quando il Pd riuscì nella non facile impresa di registrare il peggior risultato per un partito di sinistra della Seconda Repubblica. Il secondo, se possibile, è forse persino più importante: una vittoria del No al referendum può forse permettere alla minoranza del Pd di vincere il suo piccolo congresso anticipato ma porterebbe il Partito democratico non solo a regalare un’autostrada a Grillo ma anche a perdere tutti quegli elettori non del Pd che in questi anni si sono avvicinati al progetto della nazione renziano.
Il 4 dicembre diventa dunque un appuntamento importante per Renzi anche per questo ma è un appuntamento che difficilmente Renzi riuscirà a vincere se si perderà troppo nella dialettica interna al partito. Una mediazione può servire ma non sarà la minoranza del Pd a fargli vincere il voto del quattro dicembre. Sarà la sua capacità di fare quello che dovrebbe fare il capo di un partito della nazione: ricominciare a parlare più agli italiani che alle correnti del Pd. Il renzismo nasce così, con l’appello agli elettori. Concentrarsi troppo sull’appello alle correnti è utile ma rischia di essere inutile.