Come giostra Silvio Berlusconi fra Matteo Renzi e Matteo Salvini

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Renzi, ora che i vari Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Guglielmo Epifani e Miguel Gotor gli hanno fatto l’incommensurabile piacere politico di togliersi spontaneamente dai piedi

 Francesco Damato, da  formiche.net. 13.5.2017

Anche se fu lui, appena eletto segretario la prima volta, a portare il Pd nella famiglia del socialismo europeo, come nessuno dei suoi predecessori aveva osato per paura delle reazioni della componente di provenienza democristiana, a Matteo Renzi non è riuscito di chiamare socialista o semplicemente di sinistra il suo partito nella prima intervista fatta dopo il ritorno al Nazareno. Intervista concessa, con scelta non certamente casuale, al Foglio fondato da Giuliano Ferrara. Che – non dimentichiamolo – è l’autore del libro che battezzò già il primo Renzi “royal baby”, inteso come figlio politico del sovrano Silvio Berlusconi, chiamato sul Foglio con ironia solo apparente “l’amor nostro”.

E’ un amore, quello di Ferrara e amici, un po’ affievolitosi durante la campagna referendaria sulla riforma costituzionale, quando i “foglianti” avrebbero voluto Berlusconi schierato con Renzi, o almeno defilato. Ma la passione è tornata da quando il presidente di Forza Italia ha un po’ rioccupato la scena politica dividendola proprio con Renzi. Che viene accusato da critici ed avversari, fuori ma anche dentro il suo partito, di coltivare il disegno, senza neppure nasconderlo tanto, di allearsi con l’ex presidente del Consiglio azzurro dopo le prossime elezioni, destinate a non produrre automaticamente un governo ma solo a piantarne i semi sul terreno occupato da gruppi parlamentari, e persino coalizioni, se vi si potesse arrivare, nessuna delle quali autosufficiente.

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Ora che i vari Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Guglielmo Epifani e Miguel Gotor gli hanno fatto l’incommensurabile piacere politico di togliersi spontaneamente dai piedi, e di portare altrove i loro cattivi umori, o l’irrinunciabile abitudine alla lotta senza quartiere a chiunque non si riconosca nelle loro convinzioni o verità, Renzi chiama il Pd non di sinistra, non di centrosinistra, con o senza trattino, non socialista, ma semplicemente “riformista”, come ha fatto appunto nell’intervista al Foglio. E si compiace di ricordare lo stato un po’ comatoso al quale sono ormai ridotti gli altri partiti della famiglia socialista europea: dalla Spagna alla Gran Bretagna, pure se gli inglesi sono europei ormai in trasferta; dalla Germania, dove sta cessando il vento che sembrava soffiasse sulla candidatura di Schulz al cancellierato, alla Francia, dove il Renzi della Senna, il neo-presidente della Repubblica Emmanuel Macron, ha dato agli eredi del pur grande Mitterrand una specie di colpo di grazia, per quante speranze di resurrezione abbia recentemente espresso il commissario europeo Moscovici.

Tutti gli “altri” partiti socialisti del vecchio continente – le virgolette sono mie, per carità, ma credo giustificate dal ragionamento o dall’analisi di Renzi – vedono solo col “binocolo”, come direbbe il segretario della Lega Matteo Salvini, il 30 per cento dei voti attribuito grosso modo dai sondaggi al Pd. Che in teoria, con quella base di poco superiore a quella attribuita ai grillini, potrebbe anche sperare di improvvisare con un bel po’ di centristi diffusi dappertutto o, in alternativa, con un bel po’ della sinistra anch’essa dispersa di raggiungere o avvicinarsi alla soglia del 40 per cento dei voti. Che è quella salvata dalla Corte Costituzionale per l’aggiudicazione, con il famoso e cosiddetto Italicum, eventualmente esteso anche al Senato, il premio di maggioranza. Sono fantasie, magari, ma non si sa mai.

D’altronde, fare previsioni sulle regole con cui prima o dopo si dovrà pur tornare a votare, nonostante il pasticcio combinato dalla Corte Costituzionale di considerare, anzi di proclamare immediatamente applicabili le due leggi elettorali uscite dalla sua sartoria per una Camera e un Senato destinati ad essere non due rami del Parlamento ma due entità opposte, è impossibile.

Le trattative, scaramucce, manovre, chiamatele come volte, in materia di nuova legge elettorale in corso a Montecitorio in vista del 29 maggio, quando se ne dovrà o se ne dovrebbe parlare in aula, secondo le promesse fatte all’insofferente presidente della Repubblica, hanno un valore più simbolico o tattico che altro. La partita vera si giocherà più avanti al Senato, dove non esistono i numeri della Camera e i gruppi eventualmente battuti a Montecitorio potranno riprendersi la loro rivincita e rimandare a Palazzo Madama un testo diverso. Nel frattempo la legislatura potrebbe essere arrivata al capolinea, e il capo dello Stato addirittura costretto a ordinare al governo un decreto per omogeneizzare, come dice lui, le due leggi cucite a mano, si fa per dire, dagli illustrissimi suoi ex colleghi giudici costituzionali.

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Parlavo prima del “binocolo” chiamando in causa il segretario della Lega Matteo Salvini, che si è proposto di regalarlo prima o poi a Berlusconi. Che appunto solo col binocolo, come i socialisti in Europa, potrebbe vedere, secondo il Matteo padano, il trenta per cento e più di voti raccolti nel ballottaggio delle elezioni presidenziali francesi dalla leghista d’oltralpe Marine Le Pen. La cui sconfitta è stata commentata dal presidente di Forza Italia indicandola proprio a Salvini come prova inconfutabile della impossibilità di vincere le elezioni su posizioni estreme. Come sono quelle che il segretario della Lega vorrebbe imporre ad un rinato centrodestra guidato da lui, o da lui condizionato fortemente.

Anche per Salvini comunque è tempo di primarie dentro casa. Si svolgeranno domani tra lui e Giovanni Fava, il candidato di Roberto Maroni e di Umberto Bossi alla segreteria, che sarà formalizzata la domenica successiva dal congresso.

Salvini ha detto che se non otterrà almeno l’82 per cento dei voti dei 15 mila e più iscritti ottenuto la volta precedente contro Bossi, si considererà sconfitto. Maroni, il potente governatore della Lombardia, da tempo polemico con lui per le sue posizioni lepeniste, ma ora anche impietoso considerando “chiusa la stagione lepenista” col risultato delle elezioni presidenziali francesi, vorrebbe poterlo prendere sul serio. Vorrebbe cioè che Salvini, contrario ad essere “obbligato” ad allearsi elettoralmente con Berlusconi, rimanesse sotto l’80 per cento e si ritirasse davvero dal congresso.

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