Renzi ha creato un popolo, non una classe dirigente. E forse finalmente l’ha capito

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Il discorso finale del leader Pd alla Leopolda 2017 è rivelatore di tante cose: l'assenza di una visione e di un’agenda politica che superi il lutto del referendum perso, l'assenza di dialettica interna a chi lo sostiene. E l’assenza di chi avrebbe dovuto rivoluzionare la politica insieme a lui

di Francesco Cancellato 27 Novembre 2017 - 07:50 www.linkiesta.it

Non sarà stato il miglior discorso di Matteo Renzi, quello dell’ottava Leopolda del 2017. Di sicuro, però, è uno dei discorsi che meglio lo definisce. Che fa comprendere perché ce l’ha fatta, da outsider, a prendersi il Partito Democratico e il Paese, e perché dopo poco più di mille giorni ha già praticamente perso tutto. Perché tanta gente ha creduto e continua a credere in lui, e perché tanta gente che ci credeva l’ha abbandonato. Soprattutto, è il discorso più consapevole dei pregi e dei limiti del renzismo, quello che gli storici dovranno ascoltare con cura per capire questa singolare parentesi della politica italiana.

«Io ho fatto un’intervista e una pedonalizzazione, per cambiare il Paese ci voleva un popolo», dice Matteo Renzi all’inizio del suo discorso. Vero e falso, assieme. Perché sì, è vero, Renzi ha aggregato un popolo attorno a sé. Poi però ha dato spesso l’impressione di governare da solo, chiuso nel bunker di Palazzo Chigi, di maneggiare ogni singolo dossier, mettendo becco e ultima parola su ogni maledetto dossier, finanche a quante domande in inglese dovessero esserci nel concorso per le nuove abilitazioni all’insegnamento. Il tutto, con una schiera di pochi fidatissimi collaboratori. Ci sarà stato pure, un popolo, ma quella classe dirigente di gente migliore di lui che aveva promesso – e ancora promette - di portare alla guida del Paese che fine ha fatto? Perché con molta di quella classe dirigente è entrato in rotta di collisione, appena iniziava a fargli un minimo d'ombra? Perché - al netto di quelle poche che sono rimaste - molte delle teste più brillanti delle sette precedenti edizioni della Leopolda se ne sono andate sbattendo la porta? Cosa sarebbe stato il renzismo se di anno in anno si fossero ripresentate tutte, ogni volta più ricche di idee e di legami, ogni volta più forti?

 Quella classe dirigente di gente migliore di lui che aveva promesso – e ancora promette - di portare alla guida del Paese che fine ha fatto? Perché con molta di quella classe dirigente è entrato in rotta di collisione? Perché molte delle teste più brillanti delle sette precedenti edizioni della Leopolda se ne sono andate sbattendo la porta?

«Per cambiare bisogna guardare il futuro», continua Renzi. Anche in questo caso ha ragione da vendere e nel suo discorso sviluppa ragionamenti profondi su questo tema. Cita la robotica, la blockchain, il futuro del lavoro, quello dell’Europa, sembra che non ci sia sfida che non gli sia aliena, nel definire il perimetro della sua azione politica. Eppure, quando si tratta di snocciolare proposte concrete lo sguardo si sposta a quanto è stato fatto: gli 80 euro, il bonus cultura, il jobs act e la legge sul dopo di noi. E quando arrivano proposte nuove appaiono sempre più estemporanee: oggi è il servizio civile obbligatorio, il tempo pieno al Sud, il recupero degli immobili nelle città. Alla conferenza programmatica dello scorso 7 maggio, invece, c’erano le tre parole chiave lavoro, casa e mamme, che oggi sembrano scomparse dal dibattito. In soldoni: c’è la diagnosi dei problemi, ci sono un sacco di proposte puntuali che entrano ed escono dall’agenda, ma dov’è la visione, dov’è l’ordine delle priorità? Non pervenuti.

«Ciascuno di voi non ha alibi, non lasciate a qualcuno il diritto di dirvi di stare al vostro posto», dice ancora Renzi, ma poi se la prende con chi ha l’ardire di andare sui profili Facebook dei politici e dirgli quel che vuole. E con chi – gente che non sta al suo posto - ne contesta la linea politica, che alimenta un clima di rissa permanente. Invita alla ribellione e poi la biasima, alla critica permanente e poi la inibisce. Il risultato è che il Partito Democratico è diventato l’alveo schizofrenico della rottamazione di governo, proteso costantemente alla distruzione dello status quo, ma incapace di contenere al suo interno una qualsiasi forma di dissenso o di approvazione non fideistica del suo erratico leader. Il risultato è un partito che non può sopravvivere né alla vittoria, né alla sconfitta di Renzi. Non alla vittoria, perché finirebbe per issare l’infallibilità del Capo sopra ogni cosa, facendolo diventare una specie alter ego di Berlusconi. Non alla sconfitta, perché dietro di lui c’è il nulla, o la balcanizzazione, o il diluvio.

Manca una classe dirigente, manca un’agenda di governo, manca una dialettica costruttiva che sappia generare un miglioramento della proposta, un ricambio o un’alternativa. Quel che sembra esserci, se non altro, è un barlume di consapevolezza dell’errore, maturato in quest’anno di elaborazione del lutto.

Una consapevolezza che Renzi fa emergere citando Blade Runner, in due occasioni. Quando ricorda che il remake è nato dalla consapevolezza che il futuro immaginato nel flim originale – per quanto allora fosse nuovo e visionario – era già passato. E quando ricorda il replicante che chiede al suo padrone di dargli «più vita». Caro Matteo, un Pd con più vita, molta più vita, farebbe bene anche a te. Che la vera sfida è quella di far sopravvivere a te stesso la spazio politico nuovo che sei riuscito a costruire, nel male di una sconfitta, nel bene di una clamorosa rimonta. Provaci, visto che ancora puoi.