Si può ancora definire Ue il posto dove due soli paesi decidono per ventisette?

Categoria: Italia

L'Europa unita deve cambiare faccia e sostanza se vuol proseguire il suo cammino.

 di Pierluigi Magnaschi  19.1.2018 www.italiaoggi.it

L'Europa unita deve cambiare faccia e sostanza se vuol proseguire il suo cammino. È vero che ormai essa si è integrata a tal punto che sarebbe molto difficile disfarla, come dimostrano, del resto, anche i vistosi conati causati dalla Brexit a danno del Regno Unito. Ma è anche vero che la Ue sarà destinata al disfacimento (anche se non immediato, intendiamoci bene) se non correrà ai ripari, introducendo, nelle sua struttura istituzionale, la democrazia di cui fa vistosamente difetto e restituendo, ai vari paesi componenti, le libertà decisionali che sono state sinora loro ristrette, togliendole ai parlamenti nazionali, per attribuirle alla tecnostruttura comunitaria, cioè ai burocrati, onnipotenti anche se eletti da nessuno, che siedono indisturbati a Bruxelles o a Francoforte.

Basti pensare che in questi giorni si stanno elaborando i dettagli di un piano di riforma della Ue (già definito storico) in vista di un summit tra Francia e Germania. Visto che Angela Merkel è clamorosamente azzoppata perché non è ancora riuscita a formare uno straccio di governo (e quindi è necessariamente silente) e visto invece che Emmanuel Macron non ha tempo da perdere, questo piano viene, per il momento, redatto prevalentemente dagli uomini del presidente francese. Esso cioè viene ritagliato su misura per Macron, in vista delle esigenze di Parigi. Salvo qualche telefonata con Berlino che però (sia o non sia d'accordo) deve stare zitto perché non può permettersi di irritare, rispondendo in pubblico alle proposte francesi, i socialisti di Martin Schulz. Questi ultimi non hanno ancora approvato, nel loro congresso, che si terrà nel prossimo weekend, l'idea di varare con i popolari un'altra versione della Grande coalizione.

Che cosa contiene questo piano definito storico per ridisegnare l'Europa unità? È top secret. Girano, è vero, brandelli di indiscrezioni. Ma sono sempre brandelli e restano indiscrezioni. Come se il futuro dell'Europa fosse un problema che appartiene a solo a due paesi (anzi a un paese e mezzo, visto che, come abbiamo detto, per il momento, la Germania è, in parte, fuori uso). È come se l'elaborazione di questo futuro per l'Europa fosse di competenza solo di alti burocrati (prevalentemente francesi) e non invece il compito delle forze politiche democraticamente elette che operano in tutti i 27 paesi della Ue.

È vero che, ai politici italiani, le cose, in concreto, stanno bene così. Loro infatti preferiscono dibattere, in Italia, su chi affidare i collegi sicuri anziché cercare di inserirsi in un discorso, tra l'altro prevalentemente in inglese, che riguarda il futuro (immediato) dell'Europa, un'entità che ci sta già telepilotando (cioè che ci governa al posto nostro) e che lo farà sempre di più nel prossimo futuro. Basterà aspettare i mesi dell'immediato post elezioni per toccarlo con mano.

L'Europa unita nella quale abitiamo è storicamente il frutto di una gestione dirigistica prevalentemente francese (che è proseguita fino al crollo del Muro di Berlino) e, successivamente, prevalentemente tedesca che dura ancora. Una prevalenza teutonica, questa, che adesso Macron (meno rassegnato del suo predecessore Hollande) vorrebbe ribaltare ma che, non avendone i mezzi, cerca almeno di riequilibrare. Al di là di questo gioco, o balletto, resta la sostanza che le redini dell'Europa rimangono solidamente in mano a due Paesi (Germania e Francia) che sono risoluti nel voler continuare a esercitare questa ferrea egemonia alto-burocratica sul Vecchio continente.

Per una complessa legislazione comunitaria (uno sterminato millefoglie approvato, di volta in volta, dall'Italia, come si trattasse di ininfluenti bicchieri d'acqua sui quali era inutile perdere tempo; anche perché da noi era diffuso il convincimento che Bruxelles avesse sempre ragione) grazie alla legislazione burocratica comunitaria, dicevo, i 27 paesi della Comunità si trovano oggi nelle condizioni di doverla recepire (bello, questo termine, recepire, che invece sa di inevitabile, diciamo così, supposta).

In altri termini, e tanto per fare un esempio, un paese, la Francia, che aveva in passato impedito, con un suo apposito referendum, che la Ue si dotasse di una sua Costituzione, adesso vorrebbe mettere in castigo la Polonia perché ha adottato procedure di nomina dei suoi procuratori che sono in contrasto con la normativa europea. A parte il fatto che questo discorso viene minacciato da parte di un Paese (la Francia) che continua ad attribuire al suo ministro della Giustizia (cioè al governo) il potere di nominare i suoi procuratori, resta il fatto che se la Polonia, con questa sua legislazione discutibile (come lo sono tutte le legislazioni, intendiamoci bene) ha leso la Costituzione polacca, sarà la Corte costituzionale di Varsavia a cassare la riforma giudiziaria, proprio perché non è rispettosa dei Principi contenuti nella loro Carta. Invece è Bruxelles che fa la voce grossa e, dietro di essa, ci sono la Francia e la Germania che non tollerano che eccepiscano i paesi subordinati (attenzione a questo ultimo termine che non è una provocazione ma la semplice realtà funzionale).

In Europa, in questa Europa, anche se non lo dice nessuno, non è previsto il dissenso. E se qualche Paese tenta di dissentire, anche su questioni marginali, esso finisce come i dissidenti dell'Mps, cioè viene messo in castigo e, tra una parola e l'altra, viene minacciato di espulsione. Né più ne meno, purtroppo, di come fa il non mai abbastanza deprecato duo Grillo-Casaleggio. Macron, ad esempio, ha minacciato di tagliare alla Polonia gran parte dei contributi comunitari all'agricoltura che poi sono gli stessi contributi che la Francia ha ingurgitato per decenni, assorbendo la maggioranza dei fondi della Pac, cioè la Politica agricola comune, i cui rubinetti, appunto, venivano manovrati da Parigi.

Perché tanto astio, anche mediatico, contro i paesi del gruppo di Visegrad (che poi sono Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca; ai quali presto dovrebbe unirsi anche l'Austria)?Perché, questi paesi, oppressi, nel secolo passato, dalle due dittature più orribili che si siano mai manifestate nella storia dell'uomo (quella nazista e quella comunista) sono paesi che hanno alle spalle una storia tormentata, di cui portano ancora cicatrici che non si sono ancora rimarginate e, proprio per questo, mentre sono alla ricerca delle loro radici, non intendono farsi mettere in riga da Bruxelles e da chi ci sta dietro. Per reagire a questo disegno sostanzialmente sopraffattore delle libertà democratiche, il Regno Unito se ne è già andato sbattendo la porta. E per mantenere la loro dignità di stati democratici i paesi di Visegrad stanno resistendo.

In Italia invece il parlamento, opposizione compresa, quindi con un'accettazione bulgara (anche se Giulio Tremonti, sapendo che cosa si stava approvando, votò contro; e merita ricordare questo suo comportamento controcorrente) il Parlamento italiano, dicevo, ha dato il via libera entusiastico al Fiscal compact, per il rientro programmato (e a tappe forzate) dal debito pubblico, che è un impegno quantitativamente impossibile da fare. Sarebbe come pretendere di far andare un motorino da 48 cc a 250 km l'ora. E adesso, in ginocchio, gli italiani (sì, quelli stessi che avevano approvato entusiasticamente il Fiscal compact) ne chiedono l'inapplicazione, in base al principio che ad impossibilia nemo tenetur, nessuno è tenuto a fare le cose impossibili. Anche se siamo stati noi che abbiamo approvato il nodo scorsoio del Fiscal compact perché, altrimenti, Bruxelles si arrabbiava. Ah, les italiens.