Non c'è un populismo senza capo

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Il premier è un compromesso tra due aspiranti premier

di Gianfranco Morra, 24.5.2018 www.italiaoggi.it

Al governo, salvo imprevisti, ci stanno arrivando, come era giusto. In democrazia conta la volontà del popolo, intelligente o balorda che sia. Pur non avendo prodotto una maggioranza, le elezioni del 4 marzo hanno premiato due formazioni, che con un cammino lento e anche strano ora hanno trovato una convergenza, in 30 punti, che chiamano «contratto». Sarebbe un errore rifiutarlo in toto: dentro c'è il bene, il meno bene e l'inaccettabile.

L'art. 95 della Costituzione attribuisce il massimo potere al Presidente del Consiglio: «Dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l'attività dei ministri». Non è davvero poco. Ma nel lungo iter per fare il governo il candidato premier non era mai comparso. I capi del M5S e Lega, che entrambi vi aspiravano, hanno «pescato» un tertium solo a cose fatte.

Di modo che il premier non è «direttore», ma è stato degradato, secondo l'espressione di Di Maio, a un «esecutore» (un travet al servizio dei padroni del vapore). Non era ancora successo. Il governo e il suo presidente sono fortemente congiunti, visto che spetta a questi scegliere i ministri e presentarne la lista al Capo dello Stato (art. 92). Anche alla stesura del programma il futuro premier avrebbe dovuto partecipare sin dall'inizio.

Mentre tutto è stato deciso, in sua assenza, da una delegazione dei due partiti e dei loro capi. La lista dei ministri non è stata fatta dal possibile futuro premier, è stata a lui imposta da Di Maio-Salvini. Che hanno definito cosa occorre fare e chi lo farà, senza coinvolgere chi, più di tutti, dovrà farlo. Visto che «il vero leader (ha insistito Di Maio) è il programma di governo».

La cosa desta stupore, in quanto la politica del nuovo secolo, inaugurata da Berlusconi, vede una assoluta preminenza del leader-premier, detto appunto «carismatico», in quanto definisce il movimento e le sue finalità. Il nuovo premier, proposto all'ultimo momento con un difficile compromesso fra i due giovani aspiranti, è arrivato a cose fatte: non gli resta che accettare ed eseguire.

Questa subordinazione della indicazione del premier alla stesura del «contratto di governo» stupisce ancor più, quando si pensi che è stato scelto da due leader entrambi populisti. In totale contrasto con l'anima del populismo, che esalta e anche divinizza un leader, che sarà poi necessariamente il premier. Non c'è mai stato populismo senza un capo: colui che è capace di capire e svelare l'immoralità del potere e si rivolge al popolo buono e onesto per liberarlo.

Basterebbe pensare alla principale forma di populismo, quello nato in Argentina con Juan Domingo ed Evita Perón: che non era né di destra né di sinistra, andava oltre il capitalismo e il socialismo, con un cattolico scomunicato che univa patriottismo e giustizialismo, un «caudillo» (da caput, la testa). Egli espresse e trasmise non poche caratteristiche comuni a tutti i populismi.

Entrambi i movimenti, oggi uniti nel governo, sono nati da due leader «carismatici»: la Lega da Bossi nel 1989 e il M5S da Grillo nel 2008. Entrambi despoti delle loro formazioni, nelle quali mettevano normalmente in disparte la democrazia. La Lega non fu mai partito di maggioranza e dovette legarsi al carro di Berlusconi per governare. Alla maggioranza mira oggi Salvini, che l'ha ricreata ed ha avuto il 17 % di voti. E ne rivendica il 37, quelli conquistati dalla coalizione di centro-destra, di cui si ritiene il leader. Anche perché ad ogni nuova elezione aumenta i suoi voti.

Anche nel M5S il verbum, anzi il twitter di Grillo è la verità totale (Di Maio ha cercato di inserire nel «contratto» una silloge delle sue convinzioni). Ma nonostante i grillini abbiano raggiunto la maggioranza relativa come partito (32 %), il Comico non ha mai voluto scendere nell'agone politico. Ha preferito lasciare la guida del Movimento a Di Maio, che appare tutto meno che un politico carismatico. Più che una guida del popolo, un grigio esecutore di ordini: «sotto il vestito, poco».

Quanto a Giuseppe Conte, anche se non lo conosco personalmente sono rimasto ammirato dal suo prestigioso curriculum accademico, infinito e anche un po' indefinito (da alcuni discusso). Un vero premier curricolare (che è cosa diversa dalla capacità di governo). Anche se di certo non è una figura emergente, sembra piuttosto uscito dal cappello del M5S come un coniglio. Ciò che di lui mi lascia perplesso è che abbia accettato un ruolo subalterno, che certo non è quello che un premier deve essere: dominus e non famulus.

Ad accettare, come ha detto Di Maio, di essere «un esecutore», «colui che può portare avanti il contratto di Governo» (da Conte né scritto, né proposto, né discusso, ma solo ricevuto). Non è un politico ma un tecnico, non è stato scelto dal parlamento con metodi costituzionali, ma con operazioni piuttosto squallide, secondo il vecchio metodo della partitocrazia, anche se con tonalità meno intelligenti che nel passato. Mio Dio, come siamo caduti in basso!

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